La Coppa Intercontinentale è da sempre una competizione con un fascino a parte. Si scontrano calci diversi, culture diverse, mondi diversi, storie diverse. Tutte cose chiaramente elevate all'ennesima potenza quando c'erano di mezzo viaggi lunghissimi, magari in nave, alla scoperta di città, stadi e giocatori conosciuti solo di nome, quando andava bene.
Oggi formalmente non esiste nemmeno più, assorbita dal più globalista Mondiale per Club, e proprio da questo possiamo partire per trovare le finali più particolari.
La vita della Coppa Intercontinentale può essere divisa in tre fasi: la nascita, l'era moderna e l'assorbimento.
La competizione nasce nel 1960, come questione tra UEFA e CONMEBOL per stabilire la squadra più forte delle due federazioni, e quindi a quei tempi (ma pure oggi a voler ben vedere) del mondo. Fino al 1979 la sfida tra la vincitrice della Coppa Campioni e quella della Copa Libertadores vedrà partite di andata e ritorno, giocate ovviamente negli stadi di casa dei rispettivi campioni. Una formula ai limiti del sostenibile per i tempi, ma che trasuda fascino e storia ancora oggi.
Gli anni sessanta rappresentano l'età dell'oro della manifestazione. Miti a profusione, blasone a ogni livello, ambientazioni diventate patrimonio del calcio, contese di puro agonismo con protagonisti leggendari. Già per chi la viveva questa coppa rappresentava qualcosa di unico, soprattutto nel versante più caliente che è da sempre quello sudamericano. Non è un caso che ancora oggi siano proprio i sudamericani a dare un peso significativo alle competizioni derivate.
La prima partita è stata Real Madrid-Peñarol, e non servono particolari presentazioni.
I nomi più particolari del decennio si vedono nel 1967 con Racing (che schierava a centrocampo un certo Alfio Basile)-Celtic e nel 1970 con Feyenoord-Estudiantes (con in campo la Bruja Juan Ramon Veron, Carlos Bilardo e Jorge Solari, zio di Santiago).
Con gli anni settanta però la competizione entra in una fase di crisi, a causa di problemi legati alle date e agli animi caldissimi dei tifosi. Male per la coppa, benissimo per il nostro viaggio, che si arricchisce di casi particolari.
Nel 1971 l'Ajax rifiuta di partecipare al torneo per evitare gli stessi problemi di ordine pubblico affrontati dai rivali di Rotterdam un anno prima. La sfida vede quindi in campo i vicecampioni di Europa del Panathinaikos e il Nacional di Montevideo.
Nel 1973 ancora l'Ajax rifiutò di partecipare, dopo aver vinto nel 1972, chi dice per problemi finanziari chi per l'inadeguatezza dei premi partita. Inizialmente anche la Juventus vicecampione rifiutò, ma alla fine si giunse al compromesso di una partita unica disputata all'Olimpico di Roma. Che la Juve perse, contro l'Independiente di Daniel Bertoni.
Nel 1974 tocca al Bayern Monaco rifiutare la partecipazione. L'Atletico Madrid, con in campo Javier Irureta e in panchina Luis Aragones, riuscirà a imporsi sull'Independiente diventando il primo ed unico club a vincere l'Intercontinentale senza aver vinto la competizione necessaria a parteciparvi.
La finale del 1975 non si disputò a causa di un mancato accordo sulle date.
Nel 1977 ancora una volta i campioni d'Europa declinarono l'invito. Stavolta toccò al Liverpool, che mandò il Borussia Mönchengladbach a scontrarsi col Boca Juniors.
Nel 1978 la gara salterà per problemi di date.
Nel 1979 abbiamo la finale più strana di sempre. A causa del solito rifiuto, al posto del Nottingham Forest a sfidare l'Olimpia de Asuncion si presentò il Malmö.
Nel 1980 inizia la fase moderna della manifestazione. La Toyota si presenta come sponsor principale e trasferisce la sfida in una gara unica da tenersi in Giappone. Questa mossa privò le squadre del calore del pubblico di casa, ma portò ben altra rilevanza economica. In quell'anno si sfidarono Nacional e Nottingham Forest.
Il 1981 vide non a caso la prima partecipazione del Liverpool, che però dovette inchinarsi al Flamengo di Zico e Junior, per il primo e unico titolo del Mengão.
Nel 1983 si incontrarono Gremio e Amburgo, con in campo Felix Magath.
Nel 1986 ci furono due debuttanti, la Steaua Bucarest di Victor Pițurcă e il River Plate di Nery Pumpido e Oscar Ruggeri.
Nel 1987 la sfida fu tra il Peñarol, con Diego Aguirre in campo e Oscar Washington Tabarez in panchina, e il Porto di Rui Barros, ma soprattutto di Rabah Madjer. Si giocò sulla neve.
Nel 1988 ancora il Nacional si trovò di fronte il PSV Eindhoven, che allenato da Guus Hiddink schierava Romario, Ronald Koeman e Søren Lerby.
Nel 1991 è il turno di Stella Rossa-Colo Colo. I serbi, prima squadra del blocco sovietico a vincere, schieravano Sinisa Mhajlovic, Vladimir Jugovic, Dejan Savicevic e Darko Pancev.
Nel 1992 si trovano due debuttanti di un certo livello. Il Barcellona con Koeman, Guardiola, Laudrup, Stoickov e Begiristain, allenato da Cruyff e il San Paolo di Cafu, Toninho Cerezo e Raimundo Souza Viera de Oliveira, detto Raí, fratello minore di Socrates, allenato da Telè Santana.
Nel 1994 un Milan stellare (Tassotti, Maldini, Costacurta, Baresi, Albertini, Desailly, Boban, Savicevic allenati da Capello) perde a sorpresa contro il Velez Sarsfield di un tecnico emergente di nome Carlos Bianchi. In campo per il Fortin Chilavert, el Turu Flores ed el Turco Asad.
Nel 1995 si affrontano l'Ajax di Van Gaal, stracolmo di nomi noti come Van der Saar, Blind, i fratelli de Boer, Davids, Litmanen, Kuivert, Overmars e Kanu e il Gremio di Scolari, con Jardel in attacco e Arce in difesa.
Nel 1997 il Borussia Dortmund di Nevio Scala con Paulo Sosa e Chapuisat affronta il Cruzeiro di un giovane Dida e Bebeto.
Nel 1999 il Manchester United di Gary Neville, Stam, Beckham, Giggs, Scholes, Keane e Solskjær (ma soprattutto di Mikael Silvestre) affronta il Palmeiras di Scolari, con Arce, Junior Baiano, Roque Junior, Junior quello visto al Parma, Cesar Sampaio, Asprilla e quell'Alex che poi ha scritto qualche pagina di storia al Fenerbache.
La finale del 2004, ultima di Coppa Intercontinentale, è stata una divertente beffa della storia. La Champions League aveva visto trionfare il Porto di un impertinente giovane allenatore chiamato Josè Mourinho, evidentemente con la strada spianata dal destino, mentre in Libertadores gli dei avevano deciso di premiare i colombiani dell'Once Caldas. Nei portoghesi, che dovevano essere allenati da Delneri, militavano Vitor Baia, Ricardo Costa, Costinha, Maniche, Diego, Luis Fabiano e Quaresma, mentre per i colombiani si ricordano solo Elkin Soto e Juan Carlos Henao, e il portiere solo per la vittoria in Libertadores. Ugualmente si dovette arrivare ai rigori a oltranza.
Dal 2005 la manifestazione è stata assorbita nel cosiddetto Mondiale per Club, competizione organizzata e fortemente voluta dalla FIFA. Vi prendono parte i vincitori dell'equivalente della Champions League di ogni confederazione (Europa, Sudamerica, Centro-nordamerica, Africa, Asia, Oceania) e dal 2007 anche la squadra campione nazionale del paese ospitante.
Fino al 2008 si è giocato in Giappone, mentre in seguito la sede è scelta dalla FIFA sullo stile del Mondiale per nazioni.
Ma questa è un'altra storia, e dovrà essere raccontata un'altra volta.
20 dic 2014
18 dic 2014
Joaquin Correa
Joaquin Correa nasce il 13 Agosto 1994 nella provincia di Tucuman, che è la più piccola di tutta l'Argentina. Il suo talento per il calcio viene notato subito dal River, che sul luogo ha una certa attenzione a giudicare dal fatto che ci ha pescato anche Roberto Pereyra e Matias Kranevitter, più o meno della stessa generazione, ma a undici anni decide di tornare dalla famiglia. Un anno dopo è al Club Renato Cesarini di Rosario, da dove lo preleva l'Estudiantes.
Nel 2011 si impone come miglior talento delle giovanili e l'anno dopo a diciassette anni fa il suo esordio nella prima squadra. Dal 2012/2013 è un effettivo della rosa, trovando in totale sessanta presenze con cinque gol.
Il tratto distintivo di Correa è l'unione di fisico è tecnica. La sua altezza, 188 cm, lo rende una specie di gigante per gli standard argentini, mentre a livello muscolare è ancora da strutturare. Destro naturale, ha un'ottimo controllo di palla che ama esprimere in dribbling stretti. Non rapidissimo sul primo passo, riesce però a trovare una buona velocità in accelerazione. La sua prima opzione è sempre il movimento verso destra, ma sa dribblare anche sulla sinistra, soprattutto se ha spazio. Ha una buona visione di gioco e propensione agli scambi in fascia, a livello di inserimenti si mostra parecchio carente mentre esibisce un buon tiro dalla distanza.
Come attitudini è un esterno naturalmente attratto dalla fascia sinistra. Tende sempre ad allargarsi, aspettare la palla e cercare l'uno contro uno, possibilmente accentrandosi. Anche i suoi assist nascono dopo il dribbling e premiano spesso tagli e sovrapposizioni. Ha molta personalità nello sfidare l'avversario e sa difendere palla sfruttando fisico e tecnica.
Protetto di Juan Sebastian Veron, è in un certo senso il simbolo del periodo attuale della squadra di La Plata. L'Estudiantes, ovviamente in crisi economica come quasi tutto quello che ha sede in Argentina, dopo aver dominato in patria e in tutto il continente è in fase di ricostruzione. Giocatori come il Tucumano vengono messi in vetrina e valorizzati. Se riescono a fornire un contributo tecnico meglio, altrimenti si cerca la cessione per poi rinforzare la rosa magari con figure locali. Il suo arrivo alla Sampdoria è una conseguenza, e non è un caso che il contratto abbia una percentuale anche su un'eventuale vendita futura.
Non si tratta di un giocatore pronto. Sicuro talento, ma tutto da educare, soprattutto per fare l'esterno in Italia e con un tecnico come Mihajlovic. La fase di non possesso è interamente da formare, sia in chiave difensiva che offensiva. Gli manca l'attacco della profondità e l'inserimento in area, così come la copertura difensiva diligente e profonda. Per quanto sia mobile e abile a cercare lo spazio per ricevere palla, non è certo un esterno che macina chilometri in fascia.
Servirà tempo per adattarsi, ma se saprà capire e completarsi il panorama tecnico promette benissimo.
Nel 2011 si impone come miglior talento delle giovanili e l'anno dopo a diciassette anni fa il suo esordio nella prima squadra. Dal 2012/2013 è un effettivo della rosa, trovando in totale sessanta presenze con cinque gol.
Il tratto distintivo di Correa è l'unione di fisico è tecnica. La sua altezza, 188 cm, lo rende una specie di gigante per gli standard argentini, mentre a livello muscolare è ancora da strutturare. Destro naturale, ha un'ottimo controllo di palla che ama esprimere in dribbling stretti. Non rapidissimo sul primo passo, riesce però a trovare una buona velocità in accelerazione. La sua prima opzione è sempre il movimento verso destra, ma sa dribblare anche sulla sinistra, soprattutto se ha spazio. Ha una buona visione di gioco e propensione agli scambi in fascia, a livello di inserimenti si mostra parecchio carente mentre esibisce un buon tiro dalla distanza.
Come attitudini è un esterno naturalmente attratto dalla fascia sinistra. Tende sempre ad allargarsi, aspettare la palla e cercare l'uno contro uno, possibilmente accentrandosi. Anche i suoi assist nascono dopo il dribbling e premiano spesso tagli e sovrapposizioni. Ha molta personalità nello sfidare l'avversario e sa difendere palla sfruttando fisico e tecnica.
Protetto di Juan Sebastian Veron, è in un certo senso il simbolo del periodo attuale della squadra di La Plata. L'Estudiantes, ovviamente in crisi economica come quasi tutto quello che ha sede in Argentina, dopo aver dominato in patria e in tutto il continente è in fase di ricostruzione. Giocatori come il Tucumano vengono messi in vetrina e valorizzati. Se riescono a fornire un contributo tecnico meglio, altrimenti si cerca la cessione per poi rinforzare la rosa magari con figure locali. Il suo arrivo alla Sampdoria è una conseguenza, e non è un caso che il contratto abbia una percentuale anche su un'eventuale vendita futura.
Non si tratta di un giocatore pronto. Sicuro talento, ma tutto da educare, soprattutto per fare l'esterno in Italia e con un tecnico come Mihajlovic. La fase di non possesso è interamente da formare, sia in chiave difensiva che offensiva. Gli manca l'attacco della profondità e l'inserimento in area, così come la copertura difensiva diligente e profonda. Per quanto sia mobile e abile a cercare lo spazio per ricevere palla, non è certo un esterno che macina chilometri in fascia.
Servirà tempo per adattarsi, ma se saprà capire e completarsi il panorama tecnico promette benissimo.
15 dic 2014
Racing campeon!
La vittoria del torneo Transicion oltre a una componente tecnica e di temperamento ha per il Racing una fortissima impronta mistica. E forse era inevitabile per un club con una storia tanto particolare.
Il Racing Club de Avellaneda è una delle cinque grandi d'Argentina, ma i suoi successi sono quasi integralmente legati a un'epoca che possiamo definire remota. La tradizione è gloriosa tanto che il soprannome è Academia (de futbol), retaggio dell'assoluto dominio imposto alla città di Buenos Aires e al calcio argentino tutto agli albori del movimento.
Il momento di maggior gloria sportiva, il 1967 con vittoria di Libertadores e Intercontinentale, coincide con l'inizio della leggenda, che legherà per sempre a un destino particolare la squadra albiceleste. Gli dei del calcio si occuperanno personalmente di rendere imprevedibile e dolorosa la vita sportiva di ogni suo tifoso e dal 1966 vincere un campionato diventerà un tabù assoluto. Come nelle migliori opere greche evidentemente serviva un uomo, un eroe positivo, che mettesse fine al corso negativo degli eventi.
L'indentikit non può che portare a Diego Milito. Nato nel club, era effettivo della prima squadra nel 2001 quando si interuppe un digiuno lungo trentacinque anni e non può essere un caso che oggi, ad altri tredici anni di distanza, il secondo titolo dell'era moderna sia arrivato proprio nella stagione del suo ritorno. Parliamo di due campionati vinti in quarantotto anni in una terra, calcistica e non, in cui la mistica ha una forza tutta sua.
Milito non può che essere l'uomo copertina, soprattutto in Italia. Elemento di assoluta gerarchia per classe, capacità, esperienza nel club e vittorie oltrechè capitano, è chiaramente su di lui che si concentra l'aspetto storico di questo titolo. Tornato ancora in grado di pescare dal suo grande talento abbastanza giocate da produrre sei gol, è stato il riferimento assoluto della fase offensiva. Si è gestito a livello fisico, sfruttando esperienza e capacità di lettura per capire quando accelerare, dare un segno, scoccare la freccia decisiva.
La formazione che ha vinto con quarantuno punti, vincendo tredici partite su diciannove, va però oltre anche a un singolo come il Principe.
Il tecnico Diego Cocca nel Giugno 2014 ha preso in mano una squadra che definire in difficoltà è un leggero eufemismo. Nel 2013/2014 il Racing si era infatti posizionato penultimo nell'Inicial e terz'ultimo nel Final, risultando addirittura ultimo assoluto nella sommatoria dei due campionati, con trentatrè punti totali e otto vittorie su trentotto incontri. L'ennesimo progetto naufragato degli anni recenti dell'Academia, in cui si sono viste diverse volte squadre anche piene di talento perdersi totalmente per motivi ancora una volta misteriosi. Chiedere a Diego Simeone per informazioni.
Questo Racing non era fatto per vincere. Archiviata l'idea di costruire una base futuribile sui talenti delle giovanili, si è puntato su ritorni (Pillud, Centurion, Hauche, Milito) e su una squadra più esperta e solida. Il modulo è un 4-4-2 in linea tendenzialmente sbilanciato da un lato. Sugli esterni del centrocampo troviamo infatti due giocatori con caratteristiche quasi opposte: di solito a destra viene schierato un uomo più difensivo e di copertura, mentre sull'altra fascia giostra el Wachiturro Centurion, incaricato di portare palla e inventare. Il numero dieci, meteora del Genoa classe '93, è il terzo d'attacco e il quarto di centrocampo e svolge un ruolo da collante fondamentale. Statisticamente non ha avuto grande impatto, ma nel gioco è stato una pedina determinante, oltre a togliersi la soddisfazione del gol che ha portato il titolo.
Il modulo quindi si presta a diventare un 4-3-3, anche grazie alla grande mobilità delle due punte, entrambe in grado di agire sia da centravanti che come rifinitori ed abili ad allargarsi.
Gustavo Bou è senza dubbio il secondo uomo-copertina di questo titolo. Ex pibe del River, classe 1990, ha trovato molte difficoltà ad esprimersi sul campo, cambiando quattro squadre senza lasciare ricordi particolari. La sua esplosione è coincisa con l'inizio della cavalcata del Racing, che non era partito benissimo in campionato, e ha una data precisa: settima giornata, Boca-Racing, decisa da una sua doppietta. Non si fermerà più, chiudendo a dieci reti in dodici presenze e mostrando ottima intesa e intercambiabilità col referente che indossa il numero ventidue.
Il cuore del Racing di Cocca tuttavia si trova nella fase difensiva e nella lotta a centrocampo, di cui Ezequiel Videla, classe '88 arrivato in estate su precisa richiesta del tecnico, è il leader carismatico, il trascinatore sul campo. Lo si trova ovunque a tamponare ed è sempre pronto a farsi vedere per giocare palla. Un mediano encomiabile sia per sacrificio che per geometrie, che ha dato tutto e anche di più in un semestre straordinario. A sorpresa è diventato il simbolo di una squadra costruita su una difesa arcigna e instancabile, che ha chiuso il campionato con sedici gol subiti, terzo miglior passivo.
Il risultato caratteristico di Cocca è l'1-0, che si è ripetuto sei volte, possibilmente con gol di Bou.
Dieci volte la squadra è riuscita a mantenere la porta inviolata, tra cui le ultime sei giornate consecutive e otto delle ultime nove.
Altro giocatore visto in Italia oggi campione d'Argentina è Leandro Grimi, ormai ventinovenne.
C'è uno spartiacque preciso nella stagione dell'Academia, ed è come per i gol di Bou la partita alla Bombonera. Nelle prime sei giornate sono infatti arrivate tre delle quattro sconfitte stagionali, e ben dieci dei sedici gol subiti. Un cambio di marcia impressionante.
Se tutto è cominciato alla Bombonera, la partita del titolo è Racing-River. Per quanto condizionata dal turnover integrale di Gallardo, in quella giornata c'è stato il sorpasso decisivo, che la banda non è più stata capace di colmare.
L'Academia, una volta tanto, non è riuscita ad autodistruggersi. Le facce dei tifosi al Cilindro all'annuncio del gol del River all'ultima giornata dicevano tutto della storia, del passato e della paura della suprema beffa. Ma la mistica per questo semestre indicava la via del trionfo.
Il Racing Club de Avellaneda è una delle cinque grandi d'Argentina, ma i suoi successi sono quasi integralmente legati a un'epoca che possiamo definire remota. La tradizione è gloriosa tanto che il soprannome è Academia (de futbol), retaggio dell'assoluto dominio imposto alla città di Buenos Aires e al calcio argentino tutto agli albori del movimento.
Il momento di maggior gloria sportiva, il 1967 con vittoria di Libertadores e Intercontinentale, coincide con l'inizio della leggenda, che legherà per sempre a un destino particolare la squadra albiceleste. Gli dei del calcio si occuperanno personalmente di rendere imprevedibile e dolorosa la vita sportiva di ogni suo tifoso e dal 1966 vincere un campionato diventerà un tabù assoluto. Come nelle migliori opere greche evidentemente serviva un uomo, un eroe positivo, che mettesse fine al corso negativo degli eventi.
L'indentikit non può che portare a Diego Milito. Nato nel club, era effettivo della prima squadra nel 2001 quando si interuppe un digiuno lungo trentacinque anni e non può essere un caso che oggi, ad altri tredici anni di distanza, il secondo titolo dell'era moderna sia arrivato proprio nella stagione del suo ritorno. Parliamo di due campionati vinti in quarantotto anni in una terra, calcistica e non, in cui la mistica ha una forza tutta sua.
Milito non può che essere l'uomo copertina, soprattutto in Italia. Elemento di assoluta gerarchia per classe, capacità, esperienza nel club e vittorie oltrechè capitano, è chiaramente su di lui che si concentra l'aspetto storico di questo titolo. Tornato ancora in grado di pescare dal suo grande talento abbastanza giocate da produrre sei gol, è stato il riferimento assoluto della fase offensiva. Si è gestito a livello fisico, sfruttando esperienza e capacità di lettura per capire quando accelerare, dare un segno, scoccare la freccia decisiva.
La formazione che ha vinto con quarantuno punti, vincendo tredici partite su diciannove, va però oltre anche a un singolo come il Principe.
Il tecnico Diego Cocca nel Giugno 2014 ha preso in mano una squadra che definire in difficoltà è un leggero eufemismo. Nel 2013/2014 il Racing si era infatti posizionato penultimo nell'Inicial e terz'ultimo nel Final, risultando addirittura ultimo assoluto nella sommatoria dei due campionati, con trentatrè punti totali e otto vittorie su trentotto incontri. L'ennesimo progetto naufragato degli anni recenti dell'Academia, in cui si sono viste diverse volte squadre anche piene di talento perdersi totalmente per motivi ancora una volta misteriosi. Chiedere a Diego Simeone per informazioni.
Questo Racing non era fatto per vincere. Archiviata l'idea di costruire una base futuribile sui talenti delle giovanili, si è puntato su ritorni (Pillud, Centurion, Hauche, Milito) e su una squadra più esperta e solida. Il modulo è un 4-4-2 in linea tendenzialmente sbilanciato da un lato. Sugli esterni del centrocampo troviamo infatti due giocatori con caratteristiche quasi opposte: di solito a destra viene schierato un uomo più difensivo e di copertura, mentre sull'altra fascia giostra el Wachiturro Centurion, incaricato di portare palla e inventare. Il numero dieci, meteora del Genoa classe '93, è il terzo d'attacco e il quarto di centrocampo e svolge un ruolo da collante fondamentale. Statisticamente non ha avuto grande impatto, ma nel gioco è stato una pedina determinante, oltre a togliersi la soddisfazione del gol che ha portato il titolo.
Il modulo quindi si presta a diventare un 4-3-3, anche grazie alla grande mobilità delle due punte, entrambe in grado di agire sia da centravanti che come rifinitori ed abili ad allargarsi.
Gustavo Bou è senza dubbio il secondo uomo-copertina di questo titolo. Ex pibe del River, classe 1990, ha trovato molte difficoltà ad esprimersi sul campo, cambiando quattro squadre senza lasciare ricordi particolari. La sua esplosione è coincisa con l'inizio della cavalcata del Racing, che non era partito benissimo in campionato, e ha una data precisa: settima giornata, Boca-Racing, decisa da una sua doppietta. Non si fermerà più, chiudendo a dieci reti in dodici presenze e mostrando ottima intesa e intercambiabilità col referente che indossa il numero ventidue.
Il cuore del Racing di Cocca tuttavia si trova nella fase difensiva e nella lotta a centrocampo, di cui Ezequiel Videla, classe '88 arrivato in estate su precisa richiesta del tecnico, è il leader carismatico, il trascinatore sul campo. Lo si trova ovunque a tamponare ed è sempre pronto a farsi vedere per giocare palla. Un mediano encomiabile sia per sacrificio che per geometrie, che ha dato tutto e anche di più in un semestre straordinario. A sorpresa è diventato il simbolo di una squadra costruita su una difesa arcigna e instancabile, che ha chiuso il campionato con sedici gol subiti, terzo miglior passivo.
Il risultato caratteristico di Cocca è l'1-0, che si è ripetuto sei volte, possibilmente con gol di Bou.
Dieci volte la squadra è riuscita a mantenere la porta inviolata, tra cui le ultime sei giornate consecutive e otto delle ultime nove.
Altro giocatore visto in Italia oggi campione d'Argentina è Leandro Grimi, ormai ventinovenne.
C'è uno spartiacque preciso nella stagione dell'Academia, ed è come per i gol di Bou la partita alla Bombonera. Nelle prime sei giornate sono infatti arrivate tre delle quattro sconfitte stagionali, e ben dieci dei sedici gol subiti. Un cambio di marcia impressionante.
Se tutto è cominciato alla Bombonera, la partita del titolo è Racing-River. Per quanto condizionata dal turnover integrale di Gallardo, in quella giornata c'è stato il sorpasso decisivo, che la banda non è più stata capace di colmare.
L'Academia, una volta tanto, non è riuscita ad autodistruggersi. Le facce dei tifosi al Cilindro all'annuncio del gol del River all'ultima giornata dicevano tutto della storia, del passato e della paura della suprema beffa. Ma la mistica per questo semestre indicava la via del trionfo.
9 dic 2014
L'Empoli di Sarri
Non starà dominando la Serie A, ma l'Empoli di Sarri è una delle più piacevoli sorprese guardando il campionato sotto l'ottica del calcio giocato.
A leggere la formazione, più che sembrare una squadra di Serie B l'Empoli è una squadra di Serie B. I titolari sono grossomodo gli stessi che hanno conquistato la promozione un anno fa, che però stanno dimostrando di poter valere la massima divisione,
Tutti fenomeni più o meno incompresi o grande lavoro dell'allenatore?
Maurizio Sarri, classe 1959, giunge alla guida dell'Empoli nel 2012, firmando un contratto annuale. Alle spalle una lunga gavetta fatta di alterne fortune, esoneri e subentri. Il rapporto con la squadra non decolla subito, ma superate le difficoltà iniziali ottiene i play-off nel 2013 perdendo in finale col Livorno. Arriva quindi il rinnovo biennale e il secondo posto nel 2014, con promozione diretta.
Il tratto distintivo della cavalcata alla Serie A è l'impianto di gioco offensivo. L'Empoli chiude il campionato col terzo migliore attacco, cinquantanove gol segnati, in cui spiccano Massimo Maccarone, secondo migliore negli assist con dodici passaggi decisivi (conditi da quindici gol), e Francesco Tavano, secondo miglior marcatore del campionato con ventidue gol. Una coppia di trascinatori devastanti in categoria con anche il pregio di avere radici proprio in questa squadra, ma che oltre alla qualità individuali beneficia dell'impianto collettivo.
A testimonianza di questo vengono valorizzati dei talenti magari un attimo più lenti a sbocciare, o già presenti in rosa o appena arrivati. Il primo è Riccardo Saponara (1991), che grazie al gioco di Sarri farà il grande salto al Milan, ma nel 2013/2014 trova un suo posto anche Simone Verdi (1992), cinque gol e sette assist, da sempre considerato una promessa, ma sostanzialmente inesistente tra Torino e Juve Stabia. Soprattutto Mirko Valdifiori, un classe '86 con oltre duecento presenze nell'Empoli, all'improvviso diventa regista illuminato e preciso, che sull'esempio dei grandi del ruolo tipo Verratti non segna mai, ma mette otto assist.
Giunti però al 2014/2015 lo abbiamo pensato tutti. Un conto è la B un altro la A. Il gioco non potrà mai essere lo stesso e i due referenti Tavano e Maccarone annasperanno come sempre negli ultimi anni di carriera al top. Con un mercato estremamente limitato e senza alcun innesto di livello più alto il destino è segnato.
Invece Sarri ha portato avanti la sua squadra e le sue idee, dimostrando che col giusto materiale si può lavorare.
Il modulo è 4-3-1-2 che può diventare 4-3-3. L'idea è far girare la palla tanto, tenendola a terra, possibilmente in zona centrale, sfruttando scambi corti e di prima. Il possesso medio è oltre il 50%, i lanci lunghi limitatissimi. Il classico impianto di gioco che, comunemente, è possibile mettere in piedi solo con grandissimi giocatori ad altissimo livello. La formazione titolare dell'Empoli invece ha l'ossatura della B, venticinque anni di media, di solito solo due over 30 titolari e una scarsissima esperienza in A. Sarri va coi suoi uomini, cambiando il meno possibile, perchè lo conoscono e sanno quello che chiede, e per quanto si soffra di più e si faccia più fatica a segnare ad oggi ha accumulato quindici punti trovando anche risultati come i pareggi con Milan e Napoli, la vittoria sulla Lazio e il passaggio del turno contro il Genoa in Coppa Italia.
I protagonisti sono diversi, ma si può identificare una verticale precisa.
La difesa, portiere compreso, è il reparto più giovane: contando anche il portiere Sepe, il più anziano è Lorenzo Tonelli, classe 1990. Il ragazzo di Firenze è oggi uno dei giocatori più famosi della squadra grazie ai tre gol messi a segno in questo inizio di campionato, ma Tonelli è soprattutto il leader del reparto, un difensore moderno che abbina alla fisicità un'ottima capacità di giocare la palla, anche sotto pressione. Sarri gli chiede chiaramente di far partire l'azione con personalità e qualità, anche prendendo dei rischi. In altri contesti, probabilmente giocherebbe mediano difensivo. La sua capacità nel gioco aereo invece lo rende un pericolo quando si sposta in area avversaria, non a caso è già in doppia cifra di gol in carriera.
Di fianco a lui è cresciuto e continua a crescere Daniele Rugani, classe '94 anche lui col vizio del gol convocato addirittura in nazionale maggiore da Antonio Conte.
A centrocampo il dominatore è Mirko Valdifiori. I quasi ottantaquattro passaggi di media a partita (con solo cinque lanci lunghi) testimoniano il suo ruolo centrale nello sviluppo del gioco. Tutte le azioni passano da lui, a volte in modo anche troppo insistito, e lui distribuisce, anche con una certa efficacia visto che è il secondo dell'intera Serie A per passaggi decisivi di media, primo per numero totale e ha firmato quattro assist.
In attacco la sorpresa è Manuel Pucciarelli (1991). Già protagonista in B, ha migliorato il suo rendimento col cambio di categoria prendendo spesso il posto di uno dei due mostri sacri davanti. Destro raffinato, fantasia, qualità soprattutto palla al piede, gusto per il dribbling, ma anche una certa capacità tattica e di sacrificio grazie ai suoi trascorsi da centrocampista offensivo. Da attaccante moderno, in grado di svariare su tutto il fronte e di adattarsi ai vari ruoli, sembra aver trovato la sua dimensione. Al momento è il miglior marcatore della squadra insieme a Tonelli e il suo unico vero limite sembra un cognome troppo verace per il calcio di alto livello. Lo striscione con scritto "Pucciarinho" fa capire quanto sia apprezzato dai suoi tifosi.
L'Empoli non vincerà il campionato e di sicuro vivrà momenti difficili. Ma Sarri sta dimostrando che si può fare calcio prendendo un gruppo di ragazzi, credendo nelle loro qualità e inserendoli in un contesto ben preciso, che può essere votato al gioco e al possesso anche senza cognomi di grido.
Tutto questo in Serie A, dove spesso ci dicono che è impensabile.
Forza Empoli.
A leggere la formazione, più che sembrare una squadra di Serie B l'Empoli è una squadra di Serie B. I titolari sono grossomodo gli stessi che hanno conquistato la promozione un anno fa, che però stanno dimostrando di poter valere la massima divisione,
Tutti fenomeni più o meno incompresi o grande lavoro dell'allenatore?
Maurizio Sarri, classe 1959, giunge alla guida dell'Empoli nel 2012, firmando un contratto annuale. Alle spalle una lunga gavetta fatta di alterne fortune, esoneri e subentri. Il rapporto con la squadra non decolla subito, ma superate le difficoltà iniziali ottiene i play-off nel 2013 perdendo in finale col Livorno. Arriva quindi il rinnovo biennale e il secondo posto nel 2014, con promozione diretta.
Il tratto distintivo della cavalcata alla Serie A è l'impianto di gioco offensivo. L'Empoli chiude il campionato col terzo migliore attacco, cinquantanove gol segnati, in cui spiccano Massimo Maccarone, secondo migliore negli assist con dodici passaggi decisivi (conditi da quindici gol), e Francesco Tavano, secondo miglior marcatore del campionato con ventidue gol. Una coppia di trascinatori devastanti in categoria con anche il pregio di avere radici proprio in questa squadra, ma che oltre alla qualità individuali beneficia dell'impianto collettivo.
A testimonianza di questo vengono valorizzati dei talenti magari un attimo più lenti a sbocciare, o già presenti in rosa o appena arrivati. Il primo è Riccardo Saponara (1991), che grazie al gioco di Sarri farà il grande salto al Milan, ma nel 2013/2014 trova un suo posto anche Simone Verdi (1992), cinque gol e sette assist, da sempre considerato una promessa, ma sostanzialmente inesistente tra Torino e Juve Stabia. Soprattutto Mirko Valdifiori, un classe '86 con oltre duecento presenze nell'Empoli, all'improvviso diventa regista illuminato e preciso, che sull'esempio dei grandi del ruolo tipo Verratti non segna mai, ma mette otto assist.
Giunti però al 2014/2015 lo abbiamo pensato tutti. Un conto è la B un altro la A. Il gioco non potrà mai essere lo stesso e i due referenti Tavano e Maccarone annasperanno come sempre negli ultimi anni di carriera al top. Con un mercato estremamente limitato e senza alcun innesto di livello più alto il destino è segnato.
Invece Sarri ha portato avanti la sua squadra e le sue idee, dimostrando che col giusto materiale si può lavorare.
Il modulo è 4-3-1-2 che può diventare 4-3-3. L'idea è far girare la palla tanto, tenendola a terra, possibilmente in zona centrale, sfruttando scambi corti e di prima. Il possesso medio è oltre il 50%, i lanci lunghi limitatissimi. Il classico impianto di gioco che, comunemente, è possibile mettere in piedi solo con grandissimi giocatori ad altissimo livello. La formazione titolare dell'Empoli invece ha l'ossatura della B, venticinque anni di media, di solito solo due over 30 titolari e una scarsissima esperienza in A. Sarri va coi suoi uomini, cambiando il meno possibile, perchè lo conoscono e sanno quello che chiede, e per quanto si soffra di più e si faccia più fatica a segnare ad oggi ha accumulato quindici punti trovando anche risultati come i pareggi con Milan e Napoli, la vittoria sulla Lazio e il passaggio del turno contro il Genoa in Coppa Italia.
I protagonisti sono diversi, ma si può identificare una verticale precisa.
La difesa, portiere compreso, è il reparto più giovane: contando anche il portiere Sepe, il più anziano è Lorenzo Tonelli, classe 1990. Il ragazzo di Firenze è oggi uno dei giocatori più famosi della squadra grazie ai tre gol messi a segno in questo inizio di campionato, ma Tonelli è soprattutto il leader del reparto, un difensore moderno che abbina alla fisicità un'ottima capacità di giocare la palla, anche sotto pressione. Sarri gli chiede chiaramente di far partire l'azione con personalità e qualità, anche prendendo dei rischi. In altri contesti, probabilmente giocherebbe mediano difensivo. La sua capacità nel gioco aereo invece lo rende un pericolo quando si sposta in area avversaria, non a caso è già in doppia cifra di gol in carriera.
Di fianco a lui è cresciuto e continua a crescere Daniele Rugani, classe '94 anche lui col vizio del gol convocato addirittura in nazionale maggiore da Antonio Conte.
A centrocampo il dominatore è Mirko Valdifiori. I quasi ottantaquattro passaggi di media a partita (con solo cinque lanci lunghi) testimoniano il suo ruolo centrale nello sviluppo del gioco. Tutte le azioni passano da lui, a volte in modo anche troppo insistito, e lui distribuisce, anche con una certa efficacia visto che è il secondo dell'intera Serie A per passaggi decisivi di media, primo per numero totale e ha firmato quattro assist.
In attacco la sorpresa è Manuel Pucciarelli (1991). Già protagonista in B, ha migliorato il suo rendimento col cambio di categoria prendendo spesso il posto di uno dei due mostri sacri davanti. Destro raffinato, fantasia, qualità soprattutto palla al piede, gusto per il dribbling, ma anche una certa capacità tattica e di sacrificio grazie ai suoi trascorsi da centrocampista offensivo. Da attaccante moderno, in grado di svariare su tutto il fronte e di adattarsi ai vari ruoli, sembra aver trovato la sua dimensione. Al momento è il miglior marcatore della squadra insieme a Tonelli e il suo unico vero limite sembra un cognome troppo verace per il calcio di alto livello. Lo striscione con scritto "Pucciarinho" fa capire quanto sia apprezzato dai suoi tifosi.
L'Empoli non vincerà il campionato e di sicuro vivrà momenti difficili. Ma Sarri sta dimostrando che si può fare calcio prendendo un gruppo di ragazzi, credendo nelle loro qualità e inserendoli in un contesto ben preciso, che può essere votato al gioco e al possesso anche senza cognomi di grido.
Tutto questo in Serie A, dove spesso ci dicono che è impensabile.
Forza Empoli.
27 nov 2014
Il Superclasico di Copa Libertadores 2004
Il Superclasico è un evento ormai mondiale che trae gran parte del suo fascino dall'atmosfera, dal folklore, dalla storia e dalla tradizione che porta in campo insieme ai giocatori.
Una pagina fondamentale ed epica di questa storia è stata scritta nel 2004, quando Boca e River si trovarono a scontrarsi per un posto in finale della Copa più nobile del continente sudamericano, la Libertadores. Non poteva uscirne un doppio confronto come tutti gli altri.
Partiamo da un punto fondamentale: le rose erano molto diverse da quelle di oggi.
Il 2004 sembra temporalmente vicino, ma negli ultimi dieci anni sono cambiate davvero molte cose nel futbol argentino. Tra campioni affermati, giovani in rampa di lancio, figure locali e giocatori rivisti a vario livello in Europa, troviamo una serie impressionante di cognomi che ci fanno scattare qualcosa nella memoria.
Nel Boca figuravano Pato Abbondanzieri, Rolando Schiavi, Clemente Rodriguez, Nicolas Burdisso, Guillermo Barros Schelotto, Carlos Tevez, accompagnati da Matias Silvestre, Pablo Ledesma, Pablo Alvarez (tutti visti a Catania), Luis Amaranto Perea (Atletico Madrid), Willy Caballero (prima Malaga, ora City). In rosa, ma senza presenze in Copa anche Mauro Boselli.
Nel River Eduardo Tuzzio, Cristian Tula, Javier Mascherano, Lucho Gonzalez, Marcelo Gallardo, Daniel Montenegro, Marcelo Salas, Josè Sand, Maxi Lopez e Fernando Cavenaghi. Una presenza anche per Federico Higuain, fratello del Pipita, un posto in rosa per Juan Pablo Carrizo (Lazio, Inter), Patricio Toranzo (all'Huracan con Pastore) e persino Dario Conca.
Allenatori? Carlos Bianchi e Leonardo Astrada.
La doppia sfida fu, chiaramente, tesa e combattuta.
Come quest'anno l'andata si giocò alla Bombonera, dove la squadra di casa si impose 1-0 grazie al gol del Flaco Schiavi. Per quanto riguarda gli espulsi, due a uno per il River.
La partita destinata a entrare nella memoria collettiva fu il ritorno al Monumental, partita tra l'altro vietata ai tifosi ospiti.
La rete di Lucho Gonzalez, probabilmente non un caso visto lo spessore del personaggio, che riportò in pari la situazione si rivelò solo l'introduzione a una delle pagine più note di calcio sudamericano contemporaneo.
Carlos Tevez, allora giovane e in cerca di autore, al minuto 89 trovò la via della rete da centravanti vero. Lo stadio ammutolito, le facce sugli spalti e soprattutto l'esultanza dell'Apache a mimare una gallina con conseguente rosso diretto sono talmente famose che è normale pensare che la partita si sia chiusa così.
Invece l'altrimenti anonimo Cristian Nasuti trovò il gol del vantaggio del River in pieno recupero, su punizione di Cavenaghi, portando la sfida all'epilogo dei rigori dove arrivò la seconda beffa per i tifosi di casa. Maxi Lopez sbagliò infatti l'ultima definizione, mandando il Boca in finale.
In pareggio anche il conto degli espulsi visto il due a uno per il Boca.
Per inciso, il River finirà per vincere poche settimane dopo il Clausura 2004, mentre il Boca in finale fece la conoscenza di un portiere colombiano chiamato Juan Carlos Henao.
Una pagina fondamentale ed epica di questa storia è stata scritta nel 2004, quando Boca e River si trovarono a scontrarsi per un posto in finale della Copa più nobile del continente sudamericano, la Libertadores. Non poteva uscirne un doppio confronto come tutti gli altri.
Partiamo da un punto fondamentale: le rose erano molto diverse da quelle di oggi.
Il 2004 sembra temporalmente vicino, ma negli ultimi dieci anni sono cambiate davvero molte cose nel futbol argentino. Tra campioni affermati, giovani in rampa di lancio, figure locali e giocatori rivisti a vario livello in Europa, troviamo una serie impressionante di cognomi che ci fanno scattare qualcosa nella memoria.
Nel Boca figuravano Pato Abbondanzieri, Rolando Schiavi, Clemente Rodriguez, Nicolas Burdisso, Guillermo Barros Schelotto, Carlos Tevez, accompagnati da Matias Silvestre, Pablo Ledesma, Pablo Alvarez (tutti visti a Catania), Luis Amaranto Perea (Atletico Madrid), Willy Caballero (prima Malaga, ora City). In rosa, ma senza presenze in Copa anche Mauro Boselli.
Nel River Eduardo Tuzzio, Cristian Tula, Javier Mascherano, Lucho Gonzalez, Marcelo Gallardo, Daniel Montenegro, Marcelo Salas, Josè Sand, Maxi Lopez e Fernando Cavenaghi. Una presenza anche per Federico Higuain, fratello del Pipita, un posto in rosa per Juan Pablo Carrizo (Lazio, Inter), Patricio Toranzo (all'Huracan con Pastore) e persino Dario Conca.
Allenatori? Carlos Bianchi e Leonardo Astrada.
La doppia sfida fu, chiaramente, tesa e combattuta.
Come quest'anno l'andata si giocò alla Bombonera, dove la squadra di casa si impose 1-0 grazie al gol del Flaco Schiavi. Per quanto riguarda gli espulsi, due a uno per il River.
La partita destinata a entrare nella memoria collettiva fu il ritorno al Monumental, partita tra l'altro vietata ai tifosi ospiti.
La rete di Lucho Gonzalez, probabilmente non un caso visto lo spessore del personaggio, che riportò in pari la situazione si rivelò solo l'introduzione a una delle pagine più note di calcio sudamericano contemporaneo.
Carlos Tevez, allora giovane e in cerca di autore, al minuto 89 trovò la via della rete da centravanti vero. Lo stadio ammutolito, le facce sugli spalti e soprattutto l'esultanza dell'Apache a mimare una gallina con conseguente rosso diretto sono talmente famose che è normale pensare che la partita si sia chiusa così.
Invece l'altrimenti anonimo Cristian Nasuti trovò il gol del vantaggio del River in pieno recupero, su punizione di Cavenaghi, portando la sfida all'epilogo dei rigori dove arrivò la seconda beffa per i tifosi di casa. Maxi Lopez sbagliò infatti l'ultima definizione, mandando il Boca in finale.
In pareggio anche il conto degli espulsi visto il due a uno per il Boca.
Per inciso, il River finirà per vincere poche settimane dopo il Clausura 2004, mentre il Boca in finale fece la conoscenza di un portiere colombiano chiamato Juan Carlos Henao.
21 nov 2014
Intervista a Carlo Pizzigoni - Storie Mondiali
Storie Mondiali è il titolo di una serie di programmi passati su Sky in "preparazione" a Brasile 2014. Dieci puntate per dieci Mondiali, dieci racconti diventati di culto in brevissimo tempo narrati da Federico Buffa.
Dal 18 Novembre Storie Mondiali è anche un libro, e per raccontarci questa avventura AguanteFutbol ha intervistato Carlo Pizzigoni, co-autore dei testi e noto giornalista.
- Partiamo dall'inizio. C'è stata una telefonata nel cuore della notte da un numero sconosciuto? Ti hanno incappuciato e rapito in strada? A parte gli scherzi, la collaborazione con Sky come è nata?
Di telefonate Sky me ne ha fatte tante, ma mi chiedevano dell'abbonamento. A parte gli scherzi, la collaborazione nasce grazie a Federico Ferri, che mi chiamò per lavorare in vista della Copa America 2011. Poi si è andati avanti a intermittenza, ma con l'ottica precisa di arrivare ai Mondiali.
-Sai che le domande su di lui sono una tassa che ti tocca. Federico Buffa? Avete sviluppato il progetto insieme fin dall'inizio?
Il progetto è nato da subito con lui, anche perchè ci conosciamo da diverso tempo. Già lo seguivo da giocatore e appassionato di basket, colpito e incuriosito dal suo modo di raccontare in telecronaca. Poi si è presentata l'occasione di sentirlo per un'intervista, ci siamo trovati a disquisire del Porto pre-Mourinho, di Fernando Santos e del suo ruolo nella crescita di Deco, si è creato interesse reciproco e abbiamo continuato a sentirci. Federico Ferri ci ha poi contattati entrambi per lavorare allo speciale su Maradona che ha gettato le basi per un lavoro più lungo. Ci tengo a dire che Ferri è molto bravo a scegliere i collaboratori e ringraziare specialmente Sara Cometti e Leo Muti (anche nella dedica iniziale del libro, ndr), i veri architetti del programma.
- Vista la vastità della materia e la tua preparazione, come hai selezionato il materiale? Ti sei preparato un pezzo su ogni manifestazione e poi approfondito i più interessanti?Il lavoro era settato su dieci puntate, quindi dieci Mondiali dall'inizio al 1998. Bisognava ovviamente fare una scelta che non è dipesa solo da me e Federico Buffa, che abbiamo lavorato ai testi. Per prepararci io e lui ci mettiamo a un tavolo e raccogliamo tutte le idee su un certo argomento, ottenendo un quadro generale di quello che vogliamo dire. Poi ci pensa Buffa con la sua straordinaria sensibilità a intuire quali storie possano risultare più interessanti e coinvolgenti.
- C'è una storia/vicenda che per qualche motivo non avete potuto raccontare, ma a cui tieni particolarmente? E un personaggio a cui ti sei affezionato?
L'argomento è veramente vasto e veramente ricco, in ogni Mondiali abbiamo rinunciato a varie storie. I Mondiali 1934, 1954 anche solo per la grande Ungheria e 1978 li avrei raccontati volentieri. Personalmente adoro il Mondiale '58 per la sua valenza seminale. Ci troviamo la stella assoluta Pelè che cambia il calcio come giovane in grado di imporsi in un palcoscenico così importante, regalando ai posteri un esempio, e la più grande Francia di sempre, una nazionale che consegna a una nazione un'identità calcistica offensiva, una filosofia del proporre sempre gioco che porterà anni dopo alla vittoria dell'Europeo e troviamo ancora in allenatori come Wenger.
Un personaggio di cui ho parlato a cui sono particolarmente affezionato è Zinedine Zidane. Sono stato anche a visitare il suo quartiere di origine a Marsiglia. Un giocatore con una storia unica, che parla di calcio, di Francia, di Marsiglia e dell'Africa. Avrei invece voluto parlare di Bruno Metsu, l'allenatore del Senegal sorpresa del Mondiale 2002, che aveva coi suoi ragazzi un rapporto unico e irripetibile da insegnante e padre.
- Una curiosità tecnica. Com'è il passaggio dalla stesura su carta al monologo televisivo? Hai avuto problemi di tempi, battute o altro?
Quello che voi spettatori non sapete è che Buffa recita a braccio, come si dice. Il monologo ha una scaletta, degli argomenti da toccare precedentemente preparati, ma poi la narrazione è opera sua, e a volte pesca dal nulla anche aneddoti extra. Non legge un testo perchè non ne sarebbe capace, semplicemente racconta. Max D'Aloe, l'armonicista, dice che è un jazzista. Le idee sulla messa in scena sono dei nostri collaboratori, in studio si prepara tutta la struttura della puntata.
- Il libro era già previsto o è nato successivamente?
Il libro è un'idea successiva, nato sulla scia del successo delle varie puntate. Ha un linguaggio diverso e per ogni Mondiale c'è del materiale inedito. Del resto anche senza lavorare alle competizioni successive al 1998 abbiamo tanti argomenti da poterne già scrivere un altro, l'editore ci ha posto un limite perchè un libro del genere con troppe pagine (sono 266, ndr) non avrebbe funzionato.
- "Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio" a pensarci è una frase curiosa per introdurre delle trasmissioni e un libro che parlano di calcio. Che sfumatura vi ha colpito del noto aforisma di Mourinho?
La scelta è stata condivisa da tutti, è un messaggio molto efficace che spiega come il calcio sia un fenomeno a 360°, che va molto oltre il semplice rettangolo da gioco. Non si può parlare di Mondiali senza toccare argomenti sociali e politici, è un argomento estremamente fertile e stimolante.
Si ringrazia Carlo Pizzigoni per la gentilezza e la disponibilità
Dal 18 Novembre Storie Mondiali è anche un libro, e per raccontarci questa avventura AguanteFutbol ha intervistato Carlo Pizzigoni, co-autore dei testi e noto giornalista.
Storie Mondiali, Federico Buffa, Carlo Pizzigoni, Sperling & Kupfer, 2014 |
- Partiamo dall'inizio. C'è stata una telefonata nel cuore della notte da un numero sconosciuto? Ti hanno incappuciato e rapito in strada? A parte gli scherzi, la collaborazione con Sky come è nata?
Di telefonate Sky me ne ha fatte tante, ma mi chiedevano dell'abbonamento. A parte gli scherzi, la collaborazione nasce grazie a Federico Ferri, che mi chiamò per lavorare in vista della Copa America 2011. Poi si è andati avanti a intermittenza, ma con l'ottica precisa di arrivare ai Mondiali.
-Sai che le domande su di lui sono una tassa che ti tocca. Federico Buffa? Avete sviluppato il progetto insieme fin dall'inizio?
Il progetto è nato da subito con lui, anche perchè ci conosciamo da diverso tempo. Già lo seguivo da giocatore e appassionato di basket, colpito e incuriosito dal suo modo di raccontare in telecronaca. Poi si è presentata l'occasione di sentirlo per un'intervista, ci siamo trovati a disquisire del Porto pre-Mourinho, di Fernando Santos e del suo ruolo nella crescita di Deco, si è creato interesse reciproco e abbiamo continuato a sentirci. Federico Ferri ci ha poi contattati entrambi per lavorare allo speciale su Maradona che ha gettato le basi per un lavoro più lungo. Ci tengo a dire che Ferri è molto bravo a scegliere i collaboratori e ringraziare specialmente Sara Cometti e Leo Muti (anche nella dedica iniziale del libro, ndr), i veri architetti del programma.
- Vista la vastità della materia e la tua preparazione, come hai selezionato il materiale? Ti sei preparato un pezzo su ogni manifestazione e poi approfondito i più interessanti?Il lavoro era settato su dieci puntate, quindi dieci Mondiali dall'inizio al 1998. Bisognava ovviamente fare una scelta che non è dipesa solo da me e Federico Buffa, che abbiamo lavorato ai testi. Per prepararci io e lui ci mettiamo a un tavolo e raccogliamo tutte le idee su un certo argomento, ottenendo un quadro generale di quello che vogliamo dire. Poi ci pensa Buffa con la sua straordinaria sensibilità a intuire quali storie possano risultare più interessanti e coinvolgenti.
- C'è una storia/vicenda che per qualche motivo non avete potuto raccontare, ma a cui tieni particolarmente? E un personaggio a cui ti sei affezionato?
L'argomento è veramente vasto e veramente ricco, in ogni Mondiali abbiamo rinunciato a varie storie. I Mondiali 1934, 1954 anche solo per la grande Ungheria e 1978 li avrei raccontati volentieri. Personalmente adoro il Mondiale '58 per la sua valenza seminale. Ci troviamo la stella assoluta Pelè che cambia il calcio come giovane in grado di imporsi in un palcoscenico così importante, regalando ai posteri un esempio, e la più grande Francia di sempre, una nazionale che consegna a una nazione un'identità calcistica offensiva, una filosofia del proporre sempre gioco che porterà anni dopo alla vittoria dell'Europeo e troviamo ancora in allenatori come Wenger.
Un personaggio di cui ho parlato a cui sono particolarmente affezionato è Zinedine Zidane. Sono stato anche a visitare il suo quartiere di origine a Marsiglia. Un giocatore con una storia unica, che parla di calcio, di Francia, di Marsiglia e dell'Africa. Avrei invece voluto parlare di Bruno Metsu, l'allenatore del Senegal sorpresa del Mondiale 2002, che aveva coi suoi ragazzi un rapporto unico e irripetibile da insegnante e padre.
- Una curiosità tecnica. Com'è il passaggio dalla stesura su carta al monologo televisivo? Hai avuto problemi di tempi, battute o altro?
Quello che voi spettatori non sapete è che Buffa recita a braccio, come si dice. Il monologo ha una scaletta, degli argomenti da toccare precedentemente preparati, ma poi la narrazione è opera sua, e a volte pesca dal nulla anche aneddoti extra. Non legge un testo perchè non ne sarebbe capace, semplicemente racconta. Max D'Aloe, l'armonicista, dice che è un jazzista. Le idee sulla messa in scena sono dei nostri collaboratori, in studio si prepara tutta la struttura della puntata.
- Il libro era già previsto o è nato successivamente?
Il libro è un'idea successiva, nato sulla scia del successo delle varie puntate. Ha un linguaggio diverso e per ogni Mondiale c'è del materiale inedito. Del resto anche senza lavorare alle competizioni successive al 1998 abbiamo tanti argomenti da poterne già scrivere un altro, l'editore ci ha posto un limite perchè un libro del genere con troppe pagine (sono 266, ndr) non avrebbe funzionato.
- "Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio" a pensarci è una frase curiosa per introdurre delle trasmissioni e un libro che parlano di calcio. Che sfumatura vi ha colpito del noto aforisma di Mourinho?
La scelta è stata condivisa da tutti, è un messaggio molto efficace che spiega come il calcio sia un fenomeno a 360°, che va molto oltre il semplice rettangolo da gioco. Non si può parlare di Mondiali senza toccare argomenti sociali e politici, è un argomento estremamente fertile e stimolante.
Si ringrazia Carlo Pizzigoni per la gentilezza e la disponibilità
19 nov 2014
Superclasico: qui Boca
Il Boca si avvicina a questa partita in condizioni psicologiche quasi opposte rispetto agli eterni rivali.
Ha un fondamentale vantaggio: la pressione del pronostico è tutta sulle spalle del River.
Loro sono i campioni in carica, loro sono tenuti a macinare risultati e a portare spettacolo. Gli xeneizes invece possono permettersi di lavorare da underdogs progettando un colpaccio che aprirebbe di nuovo dolorosissime ferite.
Anche solo un mese fa questa sfida sarebbe stata infatti totalmente in favore della banda, pur tenendo sempre a mente l'antico adagio che vede i derby come partite a se stanti, mentre oggi il Boca può permettersi di non avere paura, compiacendosi dei fantasmi che si fanno strada nella testa degli avversari.
Per i tifosi unire gli sfottò per la comunque fresca retrocessione a una nuova eliminazione in una coppa dopo quella del 2004 sarebbe storico.
Il momento della squadra di Arruabarrena è tutto sommato positivo.
Malgrado il Vasco abbia ereditato da Carlos Bianchi una squadra capace di ottenere il maggior numero di punti insieme al Velez nella classifica aggregata dei campionati 2013/2014 (curiosamente però nessuna delle due ha vinto titoli), l'addio di Riquelme e l'esonero in estate del Virrey hanno lasciato nella maggior parte degli spettatori una netta idea di transitorietà e ricostruzione. Tradotto in aspettative, nessuno vedeva il Boca tra le favorite nonostante il blasone e trovare nella formazione titolare un insieme di nomi per la maggior parte sconosciuti ai meno esperti non aiuta di certo.
Il giovane tecnico, ex giocatore del Villarreal di cui si ricorderanno i tifosi dell'Inter, è stato bravo a gestire una situazione iniziale non semplice e a organizzare la squadra. In campionato, pur non strabiliando, è appena dietro alle quattro squadre più forti e in Copa Sudamericana ha trovato prestazioni importanti dopo quello che è stato forse il punto più basso della stagione, la sconfitta alla Bombonera 0-1 contro il Deportivo Capiatà. La reazione a quella clamorosa disfatta ha resituito al Sudamerica tutto un Boca trasformato.
Si schiera con un 4-4-2 abbastanza dinamico, che può evolvere in 4-2-3-1, 4-1-4-1 o più raramente in 4-3-1-2. I punti fissi sono la difesa a quattro, un mediano difensivo e la prima punta di riferimento, poi ci possono essere schieramenti più spregiudicati (con due centrocampisti di qualità sulle fasce, a piedi invertiti) o più prudenti (con un esterno più di corsa, a volte anche un terzino, e un centrocampista avanzato a supporto del centravanti). Si cerca il possesso con fraseggio palla a terra, a volte un po' troppo lento e insistito, e la formazione risulta tatticamente ordinata e molto "democratica" nella distribuzione del gioco e anche dei gol.
Del resto perso Riquelme nessuno fagocita palloni e la rosa è nettamente alla ricerca di nuovi leader. In difesa e a centrocampo i giocatori di gerarchia sono el Cata Diaz e Fernando Gago, ex di ritorno con carriere importanti, in porta c'è un monumento come Orion e Gigliotti rappresenta ormai una sicurezza a livello realizzativo. Si uniscono a loro gli ex giovani con ormai diverse stagioni in maglia azul y oro in curriculum, come Erbes e Colazo. Manca però, com'è ovvio dopo l'addio di una figura tanto ingombrante e determinante come quella del Mudo, un enganche di riferimento in grado di prendersi le responsabilità e inventare quando il pallone scotta. Carrizo, uno dei favoriti del tecnico, sembra più un gregario di qualità mentre Castellani fatica a consolidare le sue prestazioni nella continuità. Luciano Acosta, l'erede del numero 10, è semplicemente ancora troppo giovane e acerbo. La Copa potrebbe essere un banco di prova importante per uno di loro.
Punto di forza del Boca è sicuramente un attacco capace di produrre 20 gol andando a segno tra l'altro sia con gli attaccanti titolari che coi giovani di riserva. Andres Chavez, per fisico, tecnica e impatto, merita di essere nominato.
A favore dello spettacolo invece c'è una difesa porosa da 18 gol subiti, che dipende molto dalla personalità e dalle condizioni di Daniel Diaz.
17 nov 2014
Superclasico: qui River
Più si avvicina la sfida con il Boca, più la paura e la tensione si fanno largo tra stanze e corridoi del Monumental. Gallardo fa di tutto per dare l'impressione di avere la situazione sotto controllo, di essere dominato da una fiducia totale e, in effetti, il gruppo lascia intendere di essere sicuro e focalizzato verso la prima sfida con l'eterno nemico.
Tuttavia nessuno avrebbe potuto ipotizzare che il River Plate arrivasse alla settimana decisiva con incertezze e qualche scricchiolio strutturale di troppo, ma infortuni e stanchezza hanno lentamente messo fuori fase i perfetti ingranaggi della macchina schiacciasassi costruita dal Muneco. Un costante rallentamento, a tratti impercettibile, accelerato soltanto dalla sconfitta contro l'Estudiantes e dal pareggio contro l'Olimpo. Il liscio di Ramiro Funes Mori, uno dei migliori nella stagione millonaria, ha messo a nudo le difficoltà che sta vivendo la Banda e ha fatto sorridere più di una persona dalle parti della Boca.
Che il Superclasico sia una partita a sè è stato ripetuto allo sfinimento, ma in fin dei conti è la cruda realtà: sono 90 minuti (180, in questo caso) che amplificano emozioni e sensazioni in negativo e in positivo. Allora quella sottile fenditura di incertezza e paura può diventare uno squarcio in grado di piegare i campioni d'Argentina in carica, costretti inoltre a giocare la prima delle due sfide nella tana del rivale. Si sa, la Bombonera non trema, batte, e il River Plate è consapevole della necessità di arrivare al confronto preparato fisicamente e soprattutto mentalmente. La squadra allenata da Gallardo finora è stata elogiata soprattutto per il gioco espresso, per il ritorno al celebre paladar negro riverplatense, sapendo tuttavia mettere in campo anche personalità assoluta e caparbia tenacia. Ora, all'alba di una settimana decisiva per il semestre millonario (le due sfide con il Boca saranno intervallate dal clasico al vertice contro il Racing di Diego Milito), giunge l'inesorabile momento della verità, con tre partite che potranno proiettare il River del Muneco direttamente nella storia del club di Nunez, tra la Maquina di Pedernera e Labruna e i campioni del '96 di Ramon Diaz, o nell'olvido, l'oblio.
Un'altra eliminazione ad opera degli Xeneizes, dopo la storica semifinale di Libertadores del 2004, è un'ipotesi che al Monumental non può essere neanche presa in considerazione, non dopo la B e l'agognato ritorno ai vertici del calcio argentino. Gallardo, che in questi mesi ha mostrato sorprendente maturità e preparazione a 360°, tecnica, tattica e mentale, potrà finalmente contare sugli uomini migliori, eccezion fatta per il mediano Kranevitter. Un'assenza ogni giorno sempre più pesante, perché il giovane tucumano, fermo in infermeria per una frattura al metatarso, ha lasciato un vuoto incolmabile nel cuore del centrocampo, nonostante l'esperienza di Ponzio e la buona volontà di Guido Rodriguez, altro prodotto delle inferiores. Nessuno infatti è stato in grado di sopperire al ritmo e all'attenzione tattica del Colo, permettendo agli avversari di scovare i difetti della retroguardia e di prendere campo con relativa facilità: una chimera, fino a poco tempo fa.
Grazie al lavoro politico del Principe Enzo Francescoli, l'uomo che più di tutti ha voluto far sedere Gallardo sulla panchina del Monumental, Teofilo Gutierrez è già rientrato in Argentina, esonerato dall'impegno con la Colombia di Pekerman; mentre a nulla sono valsi gli sforzi per riportare anticipatamente a Buenos Aires anche Carlos Sanchez, alla prima convocazione con l'Uruguay. I due stranieri, fondamentali negli equilibri della Banda, dovrebbero in ogni caso presenziare dal primo minuto, per la loro importanza, leadership e per l'avversione del Muneco al turnover. La stanchezza sarà infatti uno dei fattori principali nel determinare le sorti del doppio scontro: Gallardo ha coraggiosamente deciso di voler lottare su entrambi i fronti, ma, come visto nella partita casalinga contro l'Olimpo, gambe pesanti e stress possono portare a qualche passo falso di troppo.
Non resta che attendere, confidando magari in condizioni climatiche che permettano di giocare a calcio e non a pallanuoto, come accaduto nel recente Superclasico del Torneo di Transicion.
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15 nov 2014
Le colpe di Mazzarri
Inevitabilmente giunti alla fine di un "impero" si fanno i conti in tasca al reggente uscente.
Evitando infinite discussioni tattiche e sulla composizione della rosa, quali sono le colpe di Mazzarri per il suo primo esonero in carriera?
Walter Mazzarri ha guidato l'Inter dal 24 Maggio 2013 al 14 Novembre 2014.
Giova ricordarlo perchè spesso, diciamo pure troppo spesso, nella stagione in corso il suo operato è stato valutato come fosse da pochi mesi al timone della rosa nerazzurra.
Premessa a sua difesa: si è trovato a lavorare sulle macerie dell'era Stramaccioni (e precedenti, cioè Ranieri e Gasperini), con un'Inter sostanzialmente al minimo storico considerando l'epoca moderna, soprattutto a livello di certezze e autostima. In più ha dovuto fare i conti col cambio di proprietà e con la spada di Damocle del fairplay finanziario, con chiare rispercussioni su mercato e investimenti. Una situazione congiunturale sicuramente scomoda.
Partendo dai semplici numeri, Mazzarri ha chiuso il campionato 2013/2014 con 60 punti figli di 15 vittorie, 15 pareggi e 8 sconfitte, con una media di punti a partita pari a 1,57. Un posizionamento certamente non da sogno, ma in linea con le aspettative di tornare in Europa, un primo passo verso il ritorno ad essere una squadra vera. Nel 2014/2015 il tecnico di San Vincenzo era chiamato a un passo in avanti, se non come gioco quantomento nei risultati e in generale nell'amalgama del suo gruppo. Nel campionato in corso in 11 giornate si sono viste 4 vittorie, 4 pareggi e 3 sconfitte (tutte senza appello contro Cagliari, Fiorentina e Parma) per 16 punti, con una media di 1,45. Un rendimento in chiaro calo e in peggioramento vedendo le 2 vittorie nelle ultime 7 partite.
In totale su 49 giornate di campionato ha ottenuto 19 vittorie, 19 pareggi e 11 sconfitte, in Coppa Italia su 3 partite 2 vittorie e 1 sconfitta, in Europa League su 6 partite 4 vittorie e 2 pareggi.
Andando oltre l'impietosa aritmetica, la critica principale da muovere a Mazzarri è di non aver dato in oltre un anno di lavoro un'impronta precisa alla sua squadra.
Torniamo un attimo alla conferenza di presentazione, datata Luglio 2013. Le idee sono chiare, nette e precise: "nel calcio bisogna partire subito con certe sicurezze", "voglio lavorare sull'autostima, c'è il rischio che i ragazzi
possano ancora risentire dell'ultimo campionato, voglio dare
un'organizzazione che li tuteli, che li faccia sentire sicuri", "per il blasone che ha, l'Inter ha il dovere di tornare ad essere
competitiva, i tifosi dovranno essere orgogliosi di vedere una squadra
che non molla mai, credo che attraverso gioco e prestazioni verranno
anche i risultati", "i giocatori mi hanno sempre considerato un tattico, uno che cerca di dare un'impronta ben definita alle proprie squadre".
La colpa di Mazzarri è esattamente non aver rispettato nessuna di queste intenzioni.
La sua squadra non ha mai avuto certezze, se non l'insistenza totale sul modulo a tre, l'autostima è stata ad essere gentili ondivaga, l'organizzazione si è vista solamente a tratti e mai completamente sviluppata in entrambe le fasi, sostanzialmente non è mai stata competitiva e men che meno ha dato l'impressione di non mollare mai. La sua Inter non ha mai avuto un'impronta definita, sempre contratta e timorosa, tra il difensivismo eccessivo e la timidezza nell'attaccare. Anche nei suoi tipici punti di forza come la corsa e l'intensità difensiva Mazzarri ha fallito, non riuscendo mai a trapiantarli nel nuovo contesto se non nelle prime 6 giornate della stagione 2013/2014.
Non ho parlato di bel gioco, di calcio spettacolo o altro. Mazzarri non ha portato all'Inter le basi del suo lavoro, e di conseguenza non ha quasi mai espresso il calcio che ci si aspetta da lui.
Nel 2014/2015 i nerazzurri hanno girato pagina in molte cose (rosa, proprietari, medici, pure colore di maglia) e il tecnico aveva l'opportunità di cominciare ex novo con giocatori diversi, più giovani, meno ingombranti, idealmente anche più adatti in quanto scelti dal mercato e un contratto rinnovato. Invece di progredire l'Inter ha fatto passi indietro, sia come gioco che come mentalità. Ed è crollato anche il baluardo dei pochissimi infortuni grazie al lavoro del preparatore Pondrelli.
Una squadra senza identità nè tattica nè a livello di carattere, senza alcuna certezza nè organizzazione in cui rifugiarsi dopo oltre un anno di lavoro.
In più c'è l'eterna querelle del rapporto tra l'allenatore e i giovani. Sempre dalla conferenza di presentazione "avere tanti giovani e arrivare nei primissimi posti non è sempre un
connubio vincente, ci vuole la giusta miscela, se mi chiedete di fare
50 punti allora farei una squadra di giovanissimi, ma per arrivare ai
primissimi posti è un discorso diverso", concetto anche
condivisibile, ma difficile da far coincidere con quanto espresso alla
guida dei nerazzurri nella prima stagione, chiusa a 60 punti con una
delle rose più anziane, dando per di più spesso e volentieri la colpa
dei mancati risultati proprio ai più giovani, colpevoli di sentire troppo il
peso della maglia o di errori tattici.
L'aggravante del caso Mazzarri è data dalle sue evidenti difficoltà nel comunicare.
Sempre in affanno davanti alle telecamere, impreciso con la sua lingua madre e figuriamoci con l'inglese, approssimativo persino coi nomi dei suoi giocatori, all'apparenza perennemente confuso, evidentemente non riesce quasi mai a veicolare quel che pensa in modo corretto e univocamente comprensibile. C'è poi il capitolo delle scuse, argomento per cui è famoso da sempre, usate in ogni occasione aggrappandosi di fatto a qualunque cosa pur di trovare una giustificazione esterna e ineluttabile per il fallimento. Dai calciodangoli alla pioggia in un anno e mezzo l'aneddotica è ricca, persino crudele nel suo diventare macchietta.
Nel 2014, tra media e social, è difficile galleggiare in queste condizioni.
Un allenatore coi risultati dalla sua vince sempre. Senza i risultati,
l'immagine può aiutarlo a sopravvivere. Senza nessuna delle due cose, si
precipita in fretta.
6 nov 2014
Argentina: personaggi imperdibili
Ma chi te lo fa fare di seguire il campionato argentino? Vediamo... ci sono tradizione, vecchi campioni, giovani talenti; è il campionato di Boca e River, è il campionato del Superclasico, quello di Racing, Independiente e dei Cuervos del San Lorenzo. Poi l'Argentina è la patria della passione sfrenata per il futbol, delle tifoserie più celebri e degli aneddoti infiniti!
Chi non ha mai sentito la leggenda all'origine dei soprannomi delle due squadre di Rosario, Central e Newell's? Chi non sa la storia dei sette gatti sepolti nel Cilindro di Avellaneda?
Vogliamo parlare anche dei giocatori? Maradona, Di Stefano, Pedernera, il Charro Moreno, Messi, Redondo, l'uruguayo Francescoli, Ariel Ortega o Juan Roman Riquelme?
Di motivi seri per seguire il calcio argentino ce ne sarebbero abbastanza per scrivere ogni giorno su questo blog, ma ciò che amo veramente del futbol albiceleste è la capacità di generare ciclicamente personaggi in grado di farti venire voglia di chiudere la pagina web, aprire il primo portale di viaggi e prenotare un biglietto aereo diretto a Buenos Aires. Il tutto per atterrare ad Ezeiza, tentare di superare indenni l'infinita coda alla dogana, saltare sul primo taxi, abbracciarli di persona e guardare assieme a loro una partita, con il rischio (la certezza) di essere pure insultati.
Padri di famiglia, nonne, edicolanti o vecchietti immigrati da tempo immemore, tutti con un'unica immensa e genuina passione: il futbol. E un odio sprezzante per il rivale.
Il Tano Pasman è con ogni probabilità il più famoso di tutti. Ripreso in segreto dai figli, è balzato agli onori della cronaca mondiale il giorno dopo l'andata dello spareggio salvezza tra River e Belgrano, diventando in pochi giorni un fenomeno virale.
Squadra del cuore: River Plate
Giocatore prediletto: Paulo "el Loncho" Ferrari
Giocatore detestato: Adalberto Roman
Citazione: "Cordobés y la reputa madre que te recontra mil parió"
Purtroppo non sono disponibili testimonianze relative all'infausto incontro di ritorno -che ha sancito la storica retrocessione dei Millonarios-, ma il web ci ha regalato alcune perle che meritano di essere segnalate.
1. Tano Pasman ft. Michel Telo: Eu te puteo: https://www.youtube.com/watch?v=XQmqLVPO9aI
2. Tano Pasman ft. Psy: https://www.youtube.com/watch?v=FhtylNJX5tI
3. La Botonera del Tano Pasman: http://www.martingallardo.com.ar/pasman/botonera.swf
Banfield, zona sud dell'area metropolitana di Buenos Aires, numero 900 di calle Arenales: ogni due domeniche un fotografo, purtroppo anonimo, va allo stadio del Taladro per immortalare le gesta della massima divisione argentina. Ha il suo posto a bordocampo, verso la tribuna che dà su calle Lugano e, oltre all'incessante tifo della Banda del Sur, gode dell'imperdibile telecronaca di Marta. Per nostra fortuna, un giorno decide di riprendere in gran segreto il trio di Tribuneras, mentre queste, tra una gomma da masticare e l'altra (o è sempre la stessa?), non perdono occasione per complimentarsi sportivamente con arbitro e avversari. In particolare gli ex-Banfield: Erviti e soprattutto Dario Cvitanich (e signora).
Squadra del cuore: Banfield
Giocatore prediletto: Dario Cvitanich
Giocatore detestato: Leandro Somoza
Citazione: "Que lastima que no lo pone [Viatri], para gritarle"
Di Marta preme sottolineare la profonda competenza in materia: conosce perfettamente la carriera di Somoza e soprattutto ci regala un paio di frecciate non molto velate a Viatri e alla vicenda legata al furto da una parrucchiera porteña.
Ma come tutte le storie d'amore, anche questa finisce bene: ecco infatti il video del ricongiungimento tra Marta e Dario Cvitanich.
A Rosario o tifi Central o tifi Newell's. O sei canalla o sei leproso. Più o meno.
Perché l'edicolante di cui sopra aveva giusto qualcosina da ridire a proposito dei suoi concittadini xeneizes, rei di andare allo stadio (la cancha!) soltanto due volte all'anno. Il botta e risposta che nasce tra lui e l'intera Doce è da antologia, molto meglio della partita, durante la quale peraltro a mettere a segno il vantaggio azul y oro è un certo Rodrigo Palacio.
Squadra del cuore: Rosario Central
Giocatore prediletto: n/d
Giocatore detestato: n/d
Citazione: "Anda a la cancha, bobo!"
Dell'eroico baluardo canalla non si è più saputo nulla, se non grazie a una recente fotografia:
Il Tano è uno di noi. Emigrato nel 1947 dall'Italia, ha trovato casa alla Boca, nel Boca. Di tutti questi personaggi, è sicuramente il più emozionante, il più toccante, con quel suo italiano porteñizzato e un amore senza confini per gli Xeneizes. Ci ha lasciati poco più di due anni fa, ma alla Bombonera lo ricordano ancora come il vero jugador n°12. Sempre presente: allo stadio, a Casa Amarilla per assistere agli allenamenti del suo Boca e sempre lì, con il sole o con la piogga, ad attendere l'arrivo del pullman prima delle partite, con il suo celebre grido "el mejor jugador del mundo!", quando a scendere i quattro scalini era Juan Roman Riquelme. Era uno di casa, uno del barrio, l'amuleto dei giocatori del Boca e del Coco Basile, che per questo motivo lo voleva sempre presente ad allenamenti e partite.
Squadra del cuore: Boca Juniors
Giocatore prediletto: Juan Roman Riquelme
Giocatore detestato: n/d
Citazione: "[Boca] lo quiero como a mi mamà"
La prima sessione di allenamento di Basile al ritorno sulla panchina del Boca:
Un'intervista televisiva conclusa con un caloroso saluto agli eterni rivali del River Plate:
Chi non ha mai sentito la leggenda all'origine dei soprannomi delle due squadre di Rosario, Central e Newell's? Chi non sa la storia dei sette gatti sepolti nel Cilindro di Avellaneda?
Vogliamo parlare anche dei giocatori? Maradona, Di Stefano, Pedernera, il Charro Moreno, Messi, Redondo, l'uruguayo Francescoli, Ariel Ortega o Juan Roman Riquelme?
Di motivi seri per seguire il calcio argentino ce ne sarebbero abbastanza per scrivere ogni giorno su questo blog, ma ciò che amo veramente del futbol albiceleste è la capacità di generare ciclicamente personaggi in grado di farti venire voglia di chiudere la pagina web, aprire il primo portale di viaggi e prenotare un biglietto aereo diretto a Buenos Aires. Il tutto per atterrare ad Ezeiza, tentare di superare indenni l'infinita coda alla dogana, saltare sul primo taxi, abbracciarli di persona e guardare assieme a loro una partita, con il rischio (la certezza) di essere pure insultati.
Padri di famiglia, nonne, edicolanti o vecchietti immigrati da tempo immemore, tutti con un'unica immensa e genuina passione: il futbol. E un odio sprezzante per il rivale.
EL TANO PASMAN
Squadra del cuore: River Plate
Giocatore prediletto: Paulo "el Loncho" Ferrari
Giocatore detestato: Adalberto Roman
Citazione: "Cordobés y la reputa madre que te recontra mil parió"
Purtroppo non sono disponibili testimonianze relative all'infausto incontro di ritorno -che ha sancito la storica retrocessione dei Millonarios-, ma il web ci ha regalato alcune perle che meritano di essere segnalate.
1. Tano Pasman ft. Michel Telo: Eu te puteo: https://www.youtube.com/watch?v=XQmqLVPO9aI
2. Tano Pasman ft. Psy: https://www.youtube.com/watch?v=FhtylNJX5tI
3. La Botonera del Tano Pasman: http://www.martingallardo.com.ar/pasman/botonera.swf
MARTA E LE TRIBUNERAS DEL BANFIELD
Squadra del cuore: Banfield
Giocatore prediletto: Dario Cvitanich
Giocatore detestato: Leandro Somoza
Citazione: "Que lastima que no lo pone [Viatri], para gritarle"
Di Marta preme sottolineare la profonda competenza in materia: conosce perfettamente la carriera di Somoza e soprattutto ci regala un paio di frecciate non molto velate a Viatri e alla vicenda legata al furto da una parrucchiera porteña.
Ma come tutte le storie d'amore, anche questa finisce bene: ecco infatti il video del ricongiungimento tra Marta e Dario Cvitanich.
"No me molesta nadie, meno Boca y Lanus... a muerte!"
EL GORDO DE CENTRAL
Perché l'edicolante di cui sopra aveva giusto qualcosina da ridire a proposito dei suoi concittadini xeneizes, rei di andare allo stadio (la cancha!) soltanto due volte all'anno. Il botta e risposta che nasce tra lui e l'intera Doce è da antologia, molto meglio della partita, durante la quale peraltro a mettere a segno il vantaggio azul y oro è un certo Rodrigo Palacio.
Squadra del cuore: Rosario Central
Giocatore prediletto: n/d
Giocatore detestato: n/d
Citazione: "Anda a la cancha, bobo!"
Dell'eroico baluardo canalla non si è più saputo nulla, se non grazie a una recente fotografia:
EL TANO PASCUAL
Squadra del cuore: Boca Juniors
Giocatore prediletto: Juan Roman Riquelme
Giocatore detestato: n/d
Citazione: "[Boca] lo quiero como a mi mamà"
La prima sessione di allenamento di Basile al ritorno sulla panchina del Boca:
"Coco, te llevo en el corazon!"
Un'intervista televisiva conclusa con un caloroso saluto agli eterni rivali del River Plate:
"1, 2, 3, 4, 5... los de River, que me chupen..."
4 nov 2014
San Lorenzo: guida ai cori
Domani (mercoledì 5 novembre), in occasione del Trofeo Berlusconi, San Siro ospiterà il San Lorenzo fresco campione della Copa Libertadores e istituzione del calcio argentino. Il Ciclon, una delle cinque grandi del futbol albiceleste, arriva a Milano in vista del campionato del Mondo per club, approfittando dell'invito del Milan per abituarsi al calcio europeo -sempre che quello italiano sia lontanamente equiparabile allo sport praticato dal Real Madrid- e per sfruttare l'inevitabile ritorno d'immagine. Difficile sapere se la squadra del barrio di Boedo avrà al seguito la sua celebre hinchada, quell'impressionante marea umana nota ai più come "La Gloriosa Plaza Butteler", ma ci sembra d'obbligo far conoscere a tutti i cori più famosi che si sentono dalle parti del Nuevo Gasometro.
Da ascoltare e riascoltare, per non farsi cogliere impreparati.
Un ultimo consiglio: se lo trovate, portate con voi un ombrello azulgrana.
pero a San Lorenzo no le interesa.
Tomamos vino puro de damajuana
y nos fumamos toda la marihuana.
Ohhh San Lorenzo
Ohhh San Lorenzo
mi locura vos sos mi vida,
a Boedo vamo a volver
por la vuelta todo daría daría Ciclon.
Donde juegues yo voy a estar,
hasta la muerte, hoy tenes que ganar,
que Boedo es un carnaval.
Acá esta la mas fiel,
la Gloriosa Plaza Butteler.
mirala que linda va,
es la banda de Boedo,
que al Ciclon viene a alentar.
No me importa donde juegues
siempre te voy a seguir,
yo lo quiero a San Lorenzo
y por el voy a morir.
barrio de murga y carnaval.
Te juro que en los malos momentos,
siempre te voy a acompañar.
Dale dale Matador
dale dale Matador
dale dale dale dale Matador.
la Butteler te va alentar,
vamo' azulgrana te vengo a ver,
hoy no podes perder.
Soy del barrio de Boedo,
yo soy de San Lorenzo,
lo sigo de pendejo,
porqué es un sentimiento
y esta banda que esta descontrolada
no te deja de alentar.
que nace este sentimiento,
quisieron privatizarte
pero yo a vos no te vendo.
Nos siguen diciendo
que estamos de la cabeza,
nos bancamos el descenso
hicimos la cancha nueva.
Yo quiero a la banda de fiesta y en pedo,
sabemos que vamos
a volver a Boedo.
A tanta locura no hay explicación,
si yo de pendejo estoy junto a vos.
Tanto sentimiento, tanto carnaval
nos hizo Gloriosa por la eternidad.
Que te pasa Quemero, en la quema estan todos llorando.
Van pasando los años, jugadores, tambien dirigentes,
pero no te das cuenta, que el problema lo tiene la gente.
Que no alienta cuando el globo va perdiendo oooh,
que no estaba cuando te fuiste al descenso oooh,
que no aguanta cuando ve a San Lorenzo.
Yo se que duele, yo se que es feo,
pero a tu hinchada le faltan huevos.
la Copa Libertadores es mi obsesion.
Tenes que dejarlo todo por el Ciclon
tenes que poner mas huevo pa' ser campeon.
Ya van a ver
nosotro' no somo' Boca ni River Plate.
30 ott 2014
Gli stipendi del Bayern Monaco
Il calcio in era moderna si sposa sempre più con tematiche economiche, cosa inevitabile per società che fatturano, come minimo, decine di milioni di euro. La differenza di portata monetaria è argomento comune soprattutto in caso di scontri al vertice, sia in ambito nazionale che internazionale (per la serie c'è sempre qualcuno più grosso di te).
Ad esempio questo post pubblicato dopo Roma-Bayern mette in luce l'enorme spread (se parliamo di economia, facciamolo a modo) tra la prima della classe in Bundesliga e una delle prime due in Serie A. Uno scenario semplicemente inimmaginabile anche solo quattro anni fa che oggi è una realtà consolidata.
Spesso le immagini e i numeri valgono più di mille parole, quindi è utile riprendere la tabella degli ingaggi dei bavaresi per una serie di considerazioni ulteriori.
- il giocatore più pagato dell'intera Serie A è Daniele De Rossi. Prende poco più dei due centrali difensivi titolari del Bayern, Dante e Boateng.
- Manolas, centrale difensivo titolare della Roma, prende quanto Tom Starke. Il terzo portiere.
- Pepe Reina, il secondo portiere, ha lo stesso stipendio di Buffon. Neuer guadagna quasi il doppio rispetto a quanto il portiere della Juve mai abbia raggiunto in carriera.
- il Bayern sul mercato è una potenza quasi senza opposizione. Anche i giocatori che vengono da realtà più "povere", tipo Dante dal Borussia Mönchengladbach (a trent'anni), Rafinha dal Genoa, Rode dall'Eintracht Francoforte, sono letteralmente ricoperti di soldi.
- l'esodo dal Borussia Dortmund degli ultimi anni è stato decisamente ben remunerato. In particolare il trasferimento di Götze è costato 37 milioni di cartellino più circa 24 di stipendio lordo annuale. Ma siamo tutti sicuri che lui volesse solo giocare per Guardiola.
- se anche voi vi siete chiesti come mai la trattativa Xabi Alonso sia stata così rapida quest'estate, ecco la risposta: 10 milioni al Real, 7 netti al giocatore. Possibilità per altri di inserirsi, a naso, zero.
- e Kroos? Semplicemente il Bayern gli aveva offerto un rinnovo di seconda fascia, tipo a 8 milioni l'anno. Cioè uno stipendio assolutamente top altrove, inaccettabile per le gerarchie bavaresi.
- tutte le volte che sentite sirene di mercato italiane per questi giocatori, ricordatevi gli stipendi. Shaqiri è credibile, Robben proprio no, Müller men che meno. E fino a un anno fa si parlava regolarmente di Schweinsteiger come cosa tranquillamente fattibile.
- l'undici titolare del Bayern costa tra i 90 e i 100 milioni di stipendi netti annuali.
22 ott 2014
Piscu & Romero
River e Lanus sono rispettivamente prima e seconda nel torneo Transicion ed entrambe stanno anche disputando la Copa Sudamericana, di cui il Lanus è anche campione in carica. Sono squadre ben allenate, con un'identità ben precisa in campo e diversi uomini di qualità in grado di risultare decisivi.
Tuttavia due giocatori in particolare spiccano per capacità di gestione della palla e influenza generale sul gioco, il numero 15 della banda e il 10 del granate.
Silvio Romero
Il numero dieci del Lanus è un classe 1988 con alle spalle un corposo curriculum sia nel calcio argentino in generale che nel granate in particolare. Fa il suo esordio nel 2005, tra le fila dell'Instituto Cordoba, e passa proprio al club di Buenos Aires nel 2010 dopo aver messo a segno trentadue gol nelle sue prime tre stagioni da titolare. La sua prima esperienza al Lanus vede trentuno gol in tre stagioni, di cui la seconda è stata la meno fortunata. Conosce l'Europa in prestito al Rennes nel 2013-2014 in un'esperienza poco fruttuosa e torna al suo club nell'estate 2014 dopo un trasferimento saltato in Messico. Rimasto quindi quasi per caso a sorpresa è diventato il giocatore più determinante per la fase offensiva di Guillermo Barros Schelotto.
Romero è un attaccante di movimento, destro di piede, che si distingue fin dai tempi cordobesi per tecnica, capacità di vedere la porta e soprattutto abilità nel muoversi senza palla. Non ha problemi a svariare su tutto il fronte d'attacco, giocando sia da esterno che da prima punta, proprio per la sua intelligenza che gli permette di leggere prima lo sviluppo dell'azione unita al trattamento della sfera. Per i canoni argentini ha abbastanza fisicità per difendere
efficacemente palla, grazie anche alla capacità di controllo e alla
pericolosità nel gioco di prima. Al Lanus si trova inserito in un contesto fluido e ricco di giocatori di qualità in cui raffina la sua visione di gioco, il dribbling anche in progressione e il dialogo coi compagni, trovandosi più spesso a sfruttare l'uno contro uno sull'esterno, posizione da cui può cercare sia l'assist che il taglio verso la porta.
A 26 anni Romero è un giocatore nel pieno della maturità tecnica che riesce a sfruttare le sue qualità in ogni fase della manovra offensiva. Infatti è vicecapocannoniere del Torneo con otto gol segnati, miglior marcatore della squadra, ma produce anche assist come questo e riesce a servire così l'inserimento del suo compagno Acosta. Sia che giochi da prima punta (falso nueve, si direbbe da qualche parte) sia che parta largo tende a svariare molto, sia tagliando verso l'area che venendo incontro per organizzare l'azione. Ha infine un'apprezzabile tendenza a giocare velocemente la sfera, senza eccedere in tocchi o dribbling insistiti.
Leonardo Pisculichi
Se la carriera di Romero si è sviluppata quasi interamente in Argentina, quella di Pisculichi lo ha portato a vagabondare per tutto il globo, abbandonando poco più che ventenne l'Argentinos Juniors in direzione Europa. Dopo una fugace avventura alle Baleari agli ordini dell'Hombre Vertical Hector Cuper, il trequartista del River ha risposto presente alla chiamata dorata del Qatar, dove è rimasto per cinque stagioni, prima di accasarsi per un biennio a Jinan, provincia di Shandong, Repubblica Popolare Cinese. Un anno fa arriva la richiesta d'aiuto dell'Argentinos, invischiato nella lotta salvezza, e Piscu coglie al volo l'opportunità per il ritorno in patria: un buon semestre dal punto di vista individuale, ma vano in ottica retrocessione.
In estate il trequartista classe '84 passa al River Plate orfano di Ramon Diaz, suscitando più di qualche perplessità in una tifoseria ansiosa di accogliere nuovamente a casa qualche grande ex come Pablito Aimar.
L'iniziale scetticismo viene tuttavia distrutto dopo poche partite, il tempo di lasciare che il numero 15 assorba l'idea di calcio di Gallardo e che il Muneco capisca come utilizzarlo. La sintonia è totale e Pisculichi, più della solidità di Kranevitter e della vena di Teofilo, si rivela l'ago della bilancia della Banda. Ogni azione offensiva passa per il suo sinistro: che si tratti di palleggio a centrocampo o di verticalizzare il gioco, è lui l'incaricato a spaccare in due le difese avversarie con palle velenose e duetti con i compagni. La propensione all'assist è innata (ringraziano le medie realizzative di Mora e Teo), così come la capacità di vedere spazi che apparantemente non esistono. Il mancino diventa un'arma letale su calci d'angolo e piazzati e le percussioni palla al piede, con quel suo incedere che un po' ricorda il Chori Dominguez, sorprendono per efficacia e imprevedibilità.
Ma a lasciare stupefatti, è l'assoluta propensione al lavoro senza palla: Piscu è infatti l'incaricato a dettare il primo pressing del River, un inatteso recuperatore di palloni capace di far collaborare alla perfezione le fasi di non possesso di attacco e centrocampo. Insomma, un giocatore vero all'apice della carriera, capace di intendere il gioco prima degli altri e con quel tocco di fantasia che finora gli ha permesso di entrare nella maggior parte delle azioni da gol dei Millonarios; un elemento fondamentale che Gallardo dovrà riuscire a gestire fisicamente in vista del duro finale di semestre.
8 ott 2014
La terza fase della carriera di Messi
Lionel Messi ha solo ventisette anni, eppure sembra che giochi a calcio da sempre. Ogni anno si celebrano i suoi record, la sua eclissi sportiva e la successiva resurrezione, come fosse un giocatore a fine carriera e non un ragazzo che, per dire, ha undici anni in meno di Francesco Totti.
Un destino comune per tutti i talenti capaci di imporsi da giovanissimi, massimizzato nei suoi effetti dalla visibilità del Barcellona in questo millennio, dai numeri e dalla resa del numero 10 di Rosario, ma anche dal fatto che Messi, come pochissimi altri, nel corso del tempo ha cambiato nettamente il suo modo di stare in campo, dando l'impressione di essere già in una fase matura della carriera.
Questa è l'undicesima stagione della pulce tra i grandi blaugrana e potrebbe rappresentare la terza e forse ultima parte della sua evoluzione tecnica.
Torniamo un attimo indietro per contestualizzare questa parabola.
La prima fase della storia tecnica di Messi coincide con la sua scoperta e coi primi passi mossi dal suo immenso talento. Un ragazzino coi capelli lunghi e la maglia numero diciannove ad appena diciannove anni si dimostra già un fattore all'interno di una squadra dove di certo non mancano i grandi nomi.
I tratti distintivi sono il mancino raffinatissimo, un certo fiuto del gol, ma soprattutto un dribbling fulminante nato per essere sfruttato in fascia, grazie anche a una progressione irresistibile. In un certo senso Messi è uno dei principali responsabili della moda degli esterni d'attacco a piede invertito, largo a destra ha collocato il suo ufficio e vinto tutto, unendo tecnica, capacità di gioco, gol, assist, corsa e sacrificio. Il tutto in una squadra che sembrava sostanzialmente una macchina perfetta.
Questo giocatore è esistito, a spanne, fino a metà della stagione 2009-2010, quella famosa per l'arrivo di Zlatan Ibrahimovic. Messi vincendo il triplete e dominando la stagione 2008-2009 fa un deciso salto di qualità, negli anni successivi esce dal periodo giovane per entrare nella fase di maturazione, sia tecnica che personale. La sua influenza sul gioco e sulle scelte cresce enormemente, come la sua capacità di decidere le partite. La seconda fase di Messi è quella della prima punta, in cui più che nuovo Maradona è stato il nuovo Ronaldo e ha frantumato qualunque record umano di maracature.
Il concetto, tutto sommato, è semplice: la pulce vede benissimo la porta, il primo uomo lo salta sempre ed è veloce nei tagli, più lo si avvicina alla rete più possibilità ha di segnare. I suoi evidenti limiti fisici rispetto all'interpretazione classica del ruolo vengono superati grazie all'organizzazione del Barcellona, ma anche ai suoi movimenti e alla sua indiscutibile superiorità tecnica. Se lo attacchi troppo ti salta anche col controllo, e dopo puoi solo raccogliere la palla dal fondo del sacco. Messi diventa sempre più un accentratore di palloni e gioco, rendendo in cambio numeri straordinari di media realizzativa. Nella sua stagione più devastante, il 2011-2012, arriva a settantatre gol in sessanta presenze, di cui cinquanta in campionato. Da solo segna come una squadra almeno media.
Tuttavia. pur mantenendo medie da macchina, il suo gioco nel corso del tempo si impigrisce. Evidentemente in campo si muove sempre di meno, stazionando in un nuovo ufficio collocato circa all'interno della mezzaluna davanti all'area. Tende a chiedere palla sui piedi per poi decidere il da farsi, trovandosi meno spesso servito dove può far male più velocemente alla difesa avversaria. Un calo fisico forse era inevitabile dopo tanti anni al top come anche un certo senso di superiorità e appagamento, ma in ogni caso è il primo passo verso quello cui Messi sembra tendere oggi.
Dopo questo lungo preambolo, arriviamo finalmente alla terza fase della sua carriera, quella che si sta delineando oggi, il Messi numero 10.
Giova ricordare in questo momento il rapporto tra il rosarino e i suoi compagni di reparto. Diciamo non facilissimo, per loro. Men che meno per Neymar, che ha dovuto vivere una stagione sostanzialmente di apprendistato malgrado il suo status.
Quet'anno Messi si trova (o meglio si troverà, quando sarà disponibile Suarez) a fare reparto con altre due punte purissime. Un nuovo equilibrio va studiato e trovato, perchè il numero 11 brasiliano viene da un Mondiale che lo ha consacrato stella e il nuovo numero 9 uruguaiano è un fenomeno conclamato, per di più con un carattere diciamo fumante. Impensabile chiedergli di fare da scudiero continuativamente in fascia. Come sposare questo con le ultime tendenze del 10?
L'idea è quanto già sperimentato con l'Argentina, con Messi a giostrare dietro la zona di interesse della prima punta. Il suo ufficio resta lo stesso, appena fuori area, magari svariando un po' di più, ma l'attenzione viene rivolta più all'impostazione e alla ricerca dei compagni che alla finalizzazione. Meno corsa, più gestione, facendo muovere nello spazio gli altri membri del reparto offensivo con la promessa di palloni puntuali.
La pulce, ancora una volta, si è adattato andando a pescare nel suo immenso bacino di talento. Prendendo le statistiche l'argentino è di gran lunga l'attaccante che gestisce più palloni, avvicinandosi ai numeri dei centrocampisti creativi, il giocatore che produce più passaggi decisivi e il migliore negli assist, malgrado non sia di certo il vostro trequartista canonico. In particolare colpisce che nella Liga in sette partite sia già a otto assist, quando lo scorso anno gliene servirono trentuno per arrivare a dodici. Il cambiamento è già in atto e promette di innescare una nuova forma di dominio.
In fondo Lionel Messi è nato lo stesso giorno di Juan Roman Riquelme.
L'idea è quanto già sperimentato con l'Argentina, con Messi a giostrare dietro la zona di interesse della prima punta. Il suo ufficio resta lo stesso, appena fuori area, magari svariando un po' di più, ma l'attenzione viene rivolta più all'impostazione e alla ricerca dei compagni che alla finalizzazione. Meno corsa, più gestione, facendo muovere nello spazio gli altri membri del reparto offensivo con la promessa di palloni puntuali.
La pulce, ancora una volta, si è adattato andando a pescare nel suo immenso bacino di talento. Prendendo le statistiche l'argentino è di gran lunga l'attaccante che gestisce più palloni, avvicinandosi ai numeri dei centrocampisti creativi, il giocatore che produce più passaggi decisivi e il migliore negli assist, malgrado non sia di certo il vostro trequartista canonico. In particolare colpisce che nella Liga in sette partite sia già a otto assist, quando lo scorso anno gliene servirono trentuno per arrivare a dodici. Il cambiamento è già in atto e promette di innescare una nuova forma di dominio.
In fondo Lionel Messi è nato lo stesso giorno di Juan Roman Riquelme.
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24 set 2014
Differenze tra Wenger e Mourinho nel mercato delle loro squadre
Wenger e Mourinho non sono esattamente amici. Oltre ad anni di rivalità i due manager sono divisi profondamente dalla loro personale visione del calcio, legata a concetti più ampi per uno e inscindibile dalle vittorie per l'altro.
Analizzando gli acquisti principali, il loro agire sul mercato nelle ultime due stagioni, cioè da quando il portoghese è tornato in Premier League, riflette con chiarezza le differenze caratteriali e di mentalità tra i due.
Arsene Wenger oggi incarna l'Arsenal, anche perchè è l'unico tecnico ad averne occupato la panchina nell'era moderna del club. L'approccio al gioco, la filosofia, il progetto giovani e una serie di altri fattori consolidati in quasi venti anni costituiscono un pacchetto chiaro quanto preconfezionato di quello che ci si aspetta da lui e dalla sua squadra, con uno spartiacque fondamentale dal 2004 in poi.
Nella passata stagione, forse stanco di leggere critiche e ironie, il francese decise di dare una svolta. La squadra aveva una sua ossatura costruita negli anni e finalmente sul mercato si potevano investire soldi veri su quei pochi giocatori veramente utili. Operazioni chirurgiche finalizzate a un salto di qualità atteso da dieci anni. La principale necessità tecnica era quella del centravanti, un nome che potesse portare personalità, gol, tecnica e pericolosità costante. Un nuovo Van Persie, capace di segnare, ma anche di svariare e giocare la palla. L'identikit portava a Luis Suarez, ma il corteggiamento cadrà nel nulla e un altro candidato come Higuain sceglierà la città che fu di Maradona. Wenger si trovò così in un'empasse storica, senza obiettivi e senza acquisti se non il ritorno di Flamini a parametro zero. All'ultimo giorno di mercato, forse consapevole di non poter reggere la pressione di un'estate di immobilismo, decise di investire tutto il budget nell'unico giocatore di spessore e pedigree disponibile, quel Mesut Özil scaricato dal Real Madrid. Un colpo mediatico importante per cifre e caratura tecnica, ma anche un giocatore non realmente necessario alla rosa. Preso perchè qualcuno doveva arrivare e lui tutto sommato nel gioco non stava male, al massimo bastava adattarlo un po'.
Un anno dopo, nel mercato appena concluso, l'Arsenal aveva ancora delle necessità tecniche principali ed evidenti. Il ruolo di centravanti era sostanzialmente coperto dal solo Giroud, reduce da un'ottima stagione, cui serviva una riserva credibile se non un titolare, ancora un grande nome che potesse mandarlo in panchina e elevare il livello dell'intera squadra. A centrocampo poteva servire un mediano difensivo, o un impostatore tecnico più giovane di Arteta o un giocatore fisico migliore di Flamini. Infine un difensore centrale affidabile. L'unico vero acquisto invece è stato Alexis Sanchez, ancora una volta un giocatore di talento e pedigree strappato a una spagnola arrivato in un reparto già notevolmente affollato. Tutto sommato nel gioco non stava male, bastava adattare un po' tutti gli altri. Gli altri arrivi sono stati un giovane (Chambers, che per quanto talentuoso è un '95) e un paio di sostituzioni necessarie (Debuchy per Sagna e Welbeck causa infortunio di Giroud).
Due anni di mercato anche dispendiosi, ma che non hanno risolto alcun problema tecnico (a meno che Welbeck non esploda fragorosamente, e comunque l'inglese è arrivato per coprire un infortunio) e anzi hanno ogni volta avviato una specie di rivoluzione tecnica. Non a caso oggi Wenger si trova con un progetto tattico diverso da quello che l'ha portato a vincere l'FA Cup lo scorso anno, in cui proprio Özil sembra di troppo. Poca determinazione, troppo amore per un certo tipo di giocatori, idee tattiche troppo variabili e assenza di riferimenti tecnici assoluti.
Josè Mourinho invece, non essendo legato a un unico club, ha dei tratti distintivi personali che più o meno impianta dove allena. E di solito portano a vincere titoli. La sua seconda avventura al Chelsea ha dei presupposti molto diversi dalla prima, infatti nel 2004 sia lui che il club avevano bisogno di imporsi nel calcio che conta, mentre oggi le aspettative si sono alzate visti i successi consolidati nel tempo e i soldi a disposizione. Tradotto, i risultati non possono aspettare troppo.
Più o meno dalla vittoria della Champions 2012 la rosa aveva cominciato il suo rinnovamento, uscendo dall'onda lunga del primo ciclo-Mourinho. I nuovi leader si potevano identificare in David Luiz e Mata, coadiuvato in attacco da altri giovani come Oscar e Hazard. L'allenatore portoghese nell'estate 2013 ha optato essenzialmente per un primo anno di studio, valutando il materiale disponibile, seminando le sue idee tattiche e puntellando gli uomini disponibili con Willian e Schürrle. Stranamente per le abitudini di Mourinho non sono arrivati titoli, ma il progetto è stato definito in modo chiaro e inequivocabile. La squadra ha trovato una sua base e confidenza nei risultati ottenuti, soprattutto contro le grandi.
Col mercato 2014 Mou ha voltato pagina, passando alla composizione della rosa più adatta ai suoi gusti. Le necessità tecniche individuate erano il terzino sinistro, il mediano difensivo, l'erede di Lampard come centrocampista di collegamento, la prima punta. Il mercato ha portato Filipe Luis, Matic (a Gennaio), Fabregas e Diego Costa, con l'aggiunta di Courtois in porta. Gli epurati sono stati Ashley Cole, David Luiz e Juan Mata, senza troppi complimenti e guadagnandoci pure bei soldi.
Scelte nette, anche dure e impopolari, seguendo un'idea tattica molto precisa a cui bene o male i singoli devono adattarsi. Nessuna paura di chiudere col passato, immobilismo o scelte di ripiego dell'ultimo minuto. Una rosa nuova, giovane, pronta per avviare il secondo ciclo-Mourinho.
Nel 2013-2014 Wenger ha potuto rinfacciare a Mourinho i famosi zero tituli, consumando una vendetta freddissima. Scommettiamo che non si ripeterà a breve?
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