31 mar 2016

Il vero motivo (forse) dell'addio di Conte all'Italia

70, 82, 94, 06.
Non so se Antonio Conte sia uno studioso di numeri, un cabalista o semplicemente un tipo scaramantico con amici attenti a una delle due cose. Ma in questa serie numerica potrebbe celarsi il vero motivo del suo addio alla nazionale.

70, 82, 94, 06 non sono numeri, ma date in anni.
1970, 1982, 1994, 2006. Messe così probabilmente a qualunque tifoso di calcio in Italia fanno scattare un campanello di allarme. Infatti sono gli anni delle finali disputate dall'Italia ai Mondiali in era moderna, post seconda guerra mondiale.
La loro cadenza ripetitiva è semplicemente incredibile. Tra ogni finale ci sono esattamente dodici anni. E non parliamo di edizioni della competizione in cui l'Italia partiva per forza tra le favorite, segno che c'è qualcosa che va oltre.
Il conto a questo punto è semplice. Sommando dodici a 2006 otteniamo esattamente 2018. L'Italia in Russia ha un destino segnato, ma probabilmente non è quello che molti pensano. La finale, se valgono corsi e ricorsi storici, è sostanzialmente scritta (i tifosi sono autorizzati a partire con gli scongiuri, anche se manca un po').

Fino a qui tutto bene. Conte acquisirebbe solo onori nell'aggiungere al suo palmares una finale Mondiale. Il probema sta nel secondo dato nascosto nella serie numerica, anche questo chiaro e ripetuto.
La chiave sono 70 e 94. In quelle edizioni del Mondiale l'Italia è arrivata sì in finale, ma ha perso. Curiosamente entrambe le volte contro il Brasile. Nell'82 e nel '06 invece sono arrivate due vittorie. Proseguendo nel nostro gioco quindi in Russia gli azzurri sono destinati alla finale, ma perderanno. Probabilmente contro il Brasile (i tifosi verdeoro sono autorizzati a fare gli scongiuri).

Va bene l'offerta del Chelsea, va bene il logorio della vita da ct. Ma magari Conte ha fatto i suoi studi e semplicemente non vuole accollarsi una sconfitta in finale, cosa mai semplice in un paese con svariati milioni di commissari tecnici. Del resto di Sacchi a USA 94 si parla ancora adesso.

24 mar 2016

L'ultimo anno di Cruijff da calciatore

Cruijff è stato un giocatore, un allenatore, un dirigente, un uomo, un simbolo.
Della carriera di Johan Cruijff si possono dire tante cose e raccontare tanti aneddoti, dettagli, partite, gesti, giocate. Per fare un esempio basta citare l'azione iniziale della finale dei Mondiali '74. Forse l'azione collettiva più famosa della storia del calcio delle nazionali, più famosa del risultato finale di quella stessa partita.
Ma c'è un passaggio della carriera di Cruijff che non ricorda quasi nessuno, eppure è tremendamente rappresentativo. Del calciatore e dell'uomo.
Si tratta del suo ultimo anno di calcio giocato, la stagione 1983-1984.

Il profeta del gol, classe 1947, nell'83 è ormai a fine carriera. Ha già rivoluzionato il calcio con Ajax e Olanda, passato il testimone in Catalogna e speso anni di riposo in realtà minori.
Nel 1981 è tornato in patria, a casa sua all'Ajax, vincendo altri titoli e svezzando dei giovani chiamati Frank Rijkaard e Marco van Basten. A questo periodo, giusto per far capire che su Cruijff c'è sempre qualcosa da citare, risale anche il gesto del rigore battuto in maniera indiretta, col passaggio al compagno, tornato d'attualità in tempi recenti. Un finale di carriera come, forse, ha sempre sognato.
Malgrado i titoli e lo spessore però il suo club lo lascia libero, non rinnovandogli il contratto. Un gesto ingeneroso verso un monumento simile malgrado l'età ormai vicina ai quaranta. Cruijff è fondamentalmente il padre calcistico dell'Ajax, e i suoi "figli" lo stanno cacciando.
E Cruijff, che si sente ancora calciatore e ha un carattere a dire poco forte, non la prende bene.

La scelta del campione olandese è coraggiosa al limite dell'irriverenza, dettata dal suo stile sempre all'attacco, sempre in possesso del pallino del gioco. Cruijff alza il telefono e si offre al Feyenoord, i rivali di sempre del suo Ajax che non vincono un campionato da esattamente dieci anni. E il club di Rotterdam accetta, dandogli un contratto annuale, scommettendo sulla sete di vendetta di un campione ferito.
L'ultimo anno della carriera di Cruijff non lo ricorda nessuno, e il Feyenoord non è solitamente citato tra i suoi ex club, dimenticato tra le realtà minori come i Los Angeles Aztecs. Eppure l'annata di Cruijff è straordinaria, e forse non poteva essere altrimenti.

Alimentato dalla voglia di rivalsa e potendo contare su un talento unico superato solo dalla sua intelligenza calcistica l'olandese porta il Feyenoord a vincere campionato e Coppa d'Olanda, guidando un altro futuro astro del calcio oranje di nome Ruud e di cognome Gullit.
Cruijff in campionato gioca tutte le partite tranne una, mettendo insieme in stagione oltre quaranta presenze con tredici gol giocando anche da libero. Numeri che non si vedevano dai tempi di Barcellona, sette anni prima.
Viene eletto giocatore olandese dell'anno e si ritira, conscio ancora una volta di aver vinto. E soprattutto di essersi preso la sua rivincita contro chi non aveva creduto in lui.

14 mar 2016

Mihajlovic e la rosa del Milan


"Con questa squadra è impossibile fare di più". Con questa frase, poi smentita, Sinisa Mihajlovic avrebbe sostanzialmente dichiarato la sua resa dalla tribuna del Bentegodi di Verona dopo lo 0-0 del suo Milan. Una frase sicuramente amara, che porta il serbo esattamente dove stava Seedorf nel Giugno 2014.
Sembra passato un secolo, ma l'eredità più chiara del tecnico (ammesso sia questa la sua qualifica, cosa stia facendo al momento non è dato saperlo) olandese in casa Milan era proprio il giudizio sulla rosa inadatta. Per restare sulla panchina rossonera Seedorf chiedeva i saluti di circa metà dei giocatori. Ha salutato lui. I tifosi sono sempre stati dalla sua, specie col passare del tempo, e nel 2016 Mihajlovic arriva allo stesso punto: l'allenatore può fare fino a un certo punto, ma la rosa è quella che è.
Del resto l'arrivo di Mihajlovic al Milan era legato proprio a questo punto. L'esperienza Inzaghi ha insegnato a tutti nell'ambiente rossonero che problemi possa portare avere in panchina un allenatore inesperto, che in una stagione è naufragato sotto il peso delle aspettative.
La prima mossa dell'estate 2015 proprio per questo era stato l'annuncio di Sinisa. Un tecnico giovane, ma con esperienza sia da calciatore che da allenatore e reduce forse dalla migliore avventura professionale, in cui è riuscito a valorizzare praticamente qualunque giocatore in maglia Samp.
Un allenatore vero in panchina già di suo rappresentava un passo avanti. Stesso discorso fatto dall'Inter un paio di anni fa, quando dopo Stramaccioni arrivò Mazzarri. Una responsabilità precisa per Mihajlovic, forse anche ingenerosa, che fin dal primo giorno è stato chiamato a fare la differenza a prescindere dagli uomini.

Le presunte dichiarazioni di Mihajlovic sulla rosa però stonano per un motivo preciso: il Milan questa estate ha fatto mercato. Dopo anni di vacche magre, con operazioni soprattutto sui parametri zero, la società ha tirato fuori oltre ottanta milioni per rafforzare una rosa oggettivamente inadatta, con cui Inzaghi non aveva potuto fare molto. Romagnoli, Bertolacci, Luiz Adriano, Bacca, Kucka e Balotelli sono stati i principali arrivi di un'estate con molti sogni, ma anche qualche realtà.
La domanda quindi è semplice: se Mihajlovic oggi se ne lamenta ha sbagliato lui le valutazioni o gli acquisti sono arrivati dall'alto e ha dovuto adattarsi?
Il Milan chiaramente non ha fatto una campagna acquisti stile PSG o Manchester City, ma i soldi li ha messi e ha portato a casa almeno un titolare per reparto. Non una rivoluzione, ma un cambiamento netto, che unito alle capacità del tecnico doveva portare certi risultati.
I soldi potevano essere spesi meglio? Mihajlovic voleva altri nomi, magari più funzionali al suo gioco? Oppure anche lui si è sopravvalutato nella capacità di motivare e valorizzare i singoli?
Quel che è certo è che oggi la rosa del Milan sembra ancora una volta inadatta.

Probabilmente una risposta precisa non la avremo mai, ma è legittimo pensare che le scelte di mercato del Milan siano state in parte portate avanti dalla società e "accettate" dall'allenatore. Del resto allenare una squadra col blasone dei rossoneri non capita tutti i giorni e col diavolo i compromessi sono dietro l'angolo.
Mihajlovic ha avuto il merito di dare un'identità, almeno in certi momenti, a un gruppo difficile da amalgamare. Ma questo gruppo l'ha costruito anche lui sul mercato, e non sapere in che direzione andare, pensando di trovare una soluzione in qualche modo con corsa e motivazioni, è una colpa. Partendo da un decimo posto non può bastare la sua mano per creare una squadra da primissimi posti, specie se sopraggiungono ingerenze dall'alto fin dai primi giorni.