27 dic 2017

Petagna si sta accontentando



Andrea Petagna si è imposto all'improvviso nella scorsa stagione come uno dei centravanti protagonisti della nostra Serie A. Ormai la sua presenza è data per scontata, ma solo un anno fa non era affatto così: solo nell'Atalanta aveva davanti nelle gerarchie Mauricio Pinilla ed Alberto Paloschi. Unicamente la follia visionaria di Gasperini, uno che di sicuro non ha paura di azzardare, lo ha proiettato tra i titolari dei nerazzurri e a quel punto è iniziata totalmente un'altra storia.

Riavvolgiamo il nastro. Petagna cresce calcisticamente nel Milan, dove fa il suo esordio nel 2012 in Champions League venendo poi aggregato alla prima squadra. Il suo tratto distintivo è sempre stato il fisico: il nativo di Trieste infatti fin da piccolo ha potuto vantare una superiorità schiacciante sui suoi avversari che ne ha dettato lo stile di gioco da lottatore, impavido in ogni tipo di agone fisico. A questo l'attaccante unisce un mancino raffinato, che a livello di giovanili lo rendeva una specie di versione Hulk di Messi. O una specie di Hulk e basta, il calciatore. Tra i professionisti però la musica cambia in fretta.
I primi passi della carriera di Petagna sono duri, durissimi. Cambia tre maglie (Sampdoria, Latina, Vicenza, con un ritorno al Milan nel mezzo) senza trovare mai la sua dimensione. Una situazione tanto frustrante da fargli meditare persino l'addio al calcio. Lo salva l'Ascoli, che lo preleva in prestito e lo fa giocare titolare. Risultato un campionato da 7 gol, ad oggi il suo migliore dal punto di vista realizzativo. Siamo nella stagione 2015-2016 e nel mercato di gennaio l'Atalanta decide di puntare su di lui acquistandone il cartellino. Arriverà a Bergamo l'anno successivo, nel 2016-2017, e come dicevamo la sua carriera cambierà decisamente.

Come accaduto a Cristante, Gagliardini, Kessié e chissà quanti altri l'incontro con Gasperini è fondamentale per la svolta di Petagna. Nessuno al mondo infatti darebbe fiducia dal nulla ad una punta giovane (è un classe 1995), digiuna di Serie A e soprattutto così allergica al gol. Il tecnico di Grugliasco invece sì, panchinando pure giocatori con curriculum più seri, e il risultato un anno dopo è che Andrea è un titolare certo nel massimo campionato. Tutto grazie al contesto che Gasperini ha creato a Bergamo.
Perché il contesto tattico è chiaramente fondamentale per il rendimento di Petagna: il numero 29 infatti è l'unico attaccante al mondo che va in campo a prescindere dalla sua "incapacità" di segnare. Il suo compito principale nell'Atalanta è fare da riferimento offensivo. Petagna deve stare alto, giocare tanto spalle alla porta, difendere ogni cosa che i suoi compagni gli mandano, che sia palla alta o palla bassa, pressare ogni avversario nella sua zona di competenza (che è parecchio ampia visto che gioca da unica punta). E in questo è semplicemente straordinario. Ai gol ci pensano i suoi compagni, spesso sfruttando anche il suo preziosissimo lavoro di sponda, che poi è la sua seconda caratteristica migliore. Petagna infatti ha veramente un buon mancino grazie al quale riesce a duettare coi compagni, serve assist e si produce anche in cambi di gioco. Il resto lo fa il solito fisico. Gasperini, in sostanza, lo usa per spostare anche fisicamente le difese avversarie e aprire spazi ai compagni, che poi sa anche servire.

Il problema è appunto il suo rapporto col gol. Nella scorsa stagione con l'Atalanta ne ha segnati 5, un numero chiaramente insufficiente per un centravanti titolare, dimostrando una sorprendente mancanza di cattiveria dentro l'area, specie per un giocatore tanto convinto in ogni altra zona del campo. Sembra quasi che quando Petagna rivolge la fronte alla porta perda i suoi poteri: impressionante in negativo, ad esempio, è la debolezza del suo tiro. Completasse questa assurda mancanza potrebbe diventare una punta completa molto interessante, di conseguenza sembrava naturale che iniziasse a lavorare sui suoi limiti. Invece questa stagione, al momento, va nella direzione opposta.
Petagna invece che combattere contro i suoi limiti per superarli sembra averli abbracciati, decidendo di ritagliarsi il suo spazio vitale all'interno di essi. Questa scelta, magari inconscia, rischia di tarpargli le ali, limitandolo a giocatore di ruolo in un contesto unico o quasi. Un azzardo enorme per un ragazzo che bene o male ha tutta la carriera davanti.

3 dic 2017

C'è un nuovo Cristante in città


Gasperini è da sempre un maestro nel far rendere giocatori con corsa, un minimo di senso tattico e/o tecnica. I nomi resi rilevanti dal suo sistema di gioco negli anni sono innumerevoli, ma abbandonato il suo sistema (e, forse, il suo preparatore) capita che il loro rendimento cambi, anche radicalmente. All'Atalanta il tecnico di Grugliasco sta trovando uno dei picchi della sua carriera, e l'ultimo giocatore a godere del suo tocco magico è Bryan Cristante.

Ogni tanto va ricordato che Cristante è un classe 1995, quindi un giocatore ancora giovane, soprattutto alle latitudini italiane. Per intenderci, ha un anno in meno di Gagliardini. Sembra più vissuto perché ha avuto una certa pubblicità fin da adolescente, quando giocava nella cantera del Milan ed era considerato il talento del futuro per la mediana rossonera, tanto da esordire addirittura nel 2011, in Champions League. Gagliardini, per mantenere l'esempio, vede per la prima volta il campo con l'Atalanta dei grandi due anni dopo, nel 2013.
Questa precocità in un certo senso gli si è ritorta contro. L'etichetta di giovane talento ha un peso, soprattutto quando inizi a girare un paio di squadre senza trovare mai spazio. Si passa in fretta a sopravvalutato, giovane bruciato, e dopo Benfica, Palermo e Pescara sembrava proprio questo il destino del centrocampista nato a San Vito al Tagliamento. Invece a gennaio 2017 Gasperini lo sceglie per sostituire numericamente proprio Gagliardini, prelevato dall'Inter, e comincia un'altra storia.

Nelle giovanili del Milan Cristante era visto come un potenziale erede di Pirlo, vale a dire un regista basso, specializzato nel giocare davanti alla difesa in un centrocampo a tre, dettando i tempi dell'azione. E questo sembrava il suo unico ruolo (con l'eccezione di un paio di partite sotto la guida di Allegri, che lo ha schierato da interno), fino all'incontro (sì, lo ripeto ancora, ma è proprio una sliding door focale) con Gasperini. Il tecnico piemontese evidentemente ha delle capacità al limite della veggenza nel valutare i giocatori, e nell'ex rossonero ha visto un talento passato sostanzialmente inosservato: la capacità di corsa verticale e di inserimento.

Nei primi sei mesi a Bergamo in realtà Cristante si è più che altro ambientato. Ha trovato i minuti e la fiducia che gli sono sempre mancati e ha occupato il posto in mezzo al campo lasciato da Gagliardini, giocando insieme a Freuler e Kessié. Un po' di regia, un po' di movimento, apprendimento tattico e, a sorpresa, 3 gol per un pieno di autostima fondamentale per sbocciare. Infatti Bryan quest'anno ha fatto un deciso passo in avanti, prendendo per mano l'Atalanta anche in Europa League e ritagliandosi uno spazio da deciso protagonista.

Il Cristante versione 2017-2018 è però un giocatore mai visto prima. Gasperini nella sua nuova Atalanta gli ha ritagliato un ruolo nuovo, diverso sia da quello sempre ricoperto che da quello dei primi mesi. O meglio, magari non così diverso dal periodo iniziale in nerazzurro, ma più specializzato. Il numero 4 è diventato a tutti gli effetti l'uomo degli inserimenti, deputato a dare peso all'attacco e riempire l'area. Un giocatore molto dinamico, sempre in movimento. I gol che sta trovando non sono un caso, ma frutto di un piano preciso (escludendo ovviamente quelli di testa su calcio piazzato, la sua specialità): Cristante è diventato in nerazzurro l'erede di Franck Kessié, vale a dire l'uomo che galleggia tra centrocampo e attacco a seconda delle necessità, pur con caratteristiche proprie e diverse. Di sicuro un giocatore moderno, che può incidere sulla partita in diversi modi, rendersi utile in molti modi e adattarsi a diversi compagni mantenendo un certo standard.

Il massimo esempio della nuova vita di Cristante si è avuto nello storico 1-5 contro l'Everton. In questa gara ha giocato praticamente da seconda punta, attaccando sempre l'area palla al piede e inserendosi. Risultato: due gol e un rigore procurato. Col doppio mediano alle sue spalle (la coppia de Roon-Freuler) diventa libero di interpretare la fase offensiva come trequartista incursore, l'estremizzazione del lavoro di box-to-box. Il gol trovato contro il Benevento nasce proprio da questa impostazione, che conferma la nuova dimensione del giocatore. Ora anche riferimento e leader dell'Atalanta.
A un passo dal diventare una meteora Cristante ha trovato la sua strada, trasformandosi come giocatore. Come la crisalide che diventa farfalla.

30 nov 2017

Verdi non è un esterno


Ci sono dei giocatori la cui percezione comune è alterata. Questione di archetipi abusati, visione esclusiva di highlights o semplicemente convinzione che una formazione su carta sia fissa e immutabile quando si trasferisce su un campo vero. Anche Simone Verdi è vittima di uno di questi processi, o forse di tutti insieme.

Nel caso dell'attuale numero 9 (di maglia, non certamente di ruolo) del Bologna tutto nasce dal fatto che lo si è sempre visto occupare le zone laterali del campo. Per qualità tecniche e capacità di tiro infatti la collocazione sull'esterno sembrava probabilmente la migliore ai suoi primi allenatori per farlo giocare in uno contro uno. Non a caso al Milan quando si è affacciato alla prima squadra dopo la trafila delle giovanili lo misero sotto l'ala protettiva di Ronaldinho, un altro fantasista abituato a partire largo. Al Torino nella sua prima esperienza formativa lontano da Milano acuirono questa tendenza, facendolo giocare praticamente incollato alla linea: l'etichetta sul classe '92 arriva da qui, come anche la sua innegabile abitudine a partire da quella zona. C'è un termine in questo paragrafo che non è usato per caso: segnatevi fantasista, tornerà utile.

Ora arriviamo al dunque: Verdi gioca da esterno grazie alla sua capacità di muoversi e alla sua comprensione tattica, ma non è un esterno. Donadoni nel suo schieramento tattico gli ha ritagliato una nicchia precisa e particolare, che va compresa per non cadere in errori di valutazione sul giocatore.
Al Bologna è il regista offensivo della squadra, colui che sopperisce alle mancanze in costruzione soprattutto dei centrocampisti (come spiegato qui). A prescindere dalla collocazione nello schema scritto sulla distinta, in campo Verdi fa il regista, detta il ritmo dell'azione e si occupa di scegliere il fronte su cui sviluppare il gioco. Nella formazione dei rossoblù è nettamente più esterno classico Federico Di Francesco, giocatore che si esalta nei tagli, nell'uno contro uno e nelle azioni lungo il fondo, non a caso scelto tra i titolari da Donadoni per "compensare" il lavoro di Verdi.

Per quelli che sono i canoni dell'esterno di fascia infatti il nativo di Broni difetta dell'esplosività nel breve, quella che permette alle migliori ali nel mondo di essere decisive puntando i difensori, e anche dell'istinto naturale a cercare il fondo. Il suo stile di gioco è nettamente più votato alla costruzione di gioco da una parte e alla ricerca del tiro in porta dall'altra. Nel Bologna è comune vedere Verdi accorciare verso i centrocampisti, ricevere palla spalle alla porta e gestirla in modo da sviluppare il gioco dalla trequarti in su. Sta al suo estro poi decidere se cercare il dribbling, lo scambio corto, la porta o quella che è la sua specialità, il lancio lungo a cambiare gioco. Da notare che la sua totale ambidestria gli permette di giocare indifferentemente sui due lati del campo, regalando una certa imprevedibilità all'azione.

Verdi insomma fa il lavoro del fantasista, del trequartista organizzatore di gioco, ma partendo dall'esterno. La sua evoluzione naturale probabilmente è proprio in un ruolo più centrale sul campo, da dove potrebbe distribuire il gioco senza essere limitato dalla linea laterale e soprattutto cercare più scambi e puntare la porta con più efficacia. Perché, questo senza dubbio alcuno, tenere un giocatore con la sua tecnica e la sua capacità di tiro con entrambi i piedi in zona centrale vicino alla porta è un enorme deterrente per qualunque difesa.
Chi intende puntare su di lui deve saperlo. Tatticamente è un giocatore intelligente anche per movimenti in copertura, capace di metterci il fisico per quel che può, ma non ha la corsa dell'esterno di fascia, né i ripiegamenti profondi. Non è un caso che quando chiamato da Ventura con l'Italia un po' all'improvviso non abbia brillato: l'ex ct lo ha mandato in campo a fare l'esterno, senza considerare quello che Verdi sa e non sa fare (stessa cosa successa a Insigne, mutatis mutandis).


13 nov 2017

Il Brasile ha vinto i Mondiali 2018


Tite è liberissimo di fare tutti gli scongiuri noti agli stregoni brasiliani e anche altri a sua discrezione, ma l'eliminazione dallo spareggio dell'Italia di Ventura, oltre a rappresentare il punto più basso del calcio azzurro dal 1958, parla chiarissimo: il Brasile può solo vincere i prossimi Mondiali.

Il fallimento dell'Italia ha infatti una portata che travalica la "semplice" storia per ergersi a una vera e propria sfida al destino. Dal 1970 l'Italia aveva una cadenza regolare in termini di finali, sconfitte e vittorie. Parliamo di un arco temporale di quasi quarant'anni, quindi ben oltre la coincidenza. Tutto finito un freddo lunedì del novembre 2017 a San Siro, e ora il destino dovrà riannodare i suoi fili.

Ma passiamo al Brasile.
Già prima la storia parlava: finale con l'Italia e vittoria. Ora non c'è più l'ostacolo azzurro, quindi diventa più semplice.
Ma andiamo oltre. Nel 1958, anno come detto della prima e fino ad oggi ultima assenza dell'Italia dalla massima competizione per selezioni nazionali, indovinate un po' chi si portò a casa la coppa Rimet? Bravi, il Brasile guidato da Pelé (e Garrincha e gli altri straordinari 10 del tempo), che riusciva a sconfiggere la maledizione del '50 trovando il suo primo titolo.
Dettaglio amaro: i Mondiali del '58 si giocavano in Svezia, e proprio contro la squadra di casa i brasiliani giocarono e vinsero la finale.

Volete un'ultima coincidenza, così impegnate la casa alla più vicina agenzia di scommesse?
L'edizione precedente a quella svedese, vale a dire quella del 1954, era stata vinta dalla Germania. Non serve che vi ricordi i campioni in carica datati 2014.

6 nov 2017

La mediana perfetta, scartata dal Bayern



Premessa: il Bayern Monaco è una squadra forte. Anzi, una delle più forti d'Europa. E non da oggi, ma in epoca recente circa dal 2010. Cioè ai tempi della prima delle tre finali di Champions League disputate dalla squadra bavarese in quattro anni tra il 2010 e il 2014, prima che il Real Madrid imponesse il suo terzo ciclo vincente sulla coppa dei campioni.
E non per caso: in questo lasso di tempo gran parte degli elementi migliori della rosa della squadra tedesca, a prescindere dal tecnico in panchina, hanno raggiunto la loro maturità calcistica. Robben, Ribery, Boateng, Lahm, Schweinsteiger, Neuer, Müller, Alaba, insieme a Mandzukic, Lewandowski, Xabi Alonso, Javi Martinez e tutti quelli che hanno voluto comprare: stiamo parlando di gran parte della Germania campione del mondo nel 2014 assemblata a giocatori di spessore assoluto.
Il Bayern è un esempio di capacità gestionali, marketing, risultati sportivi e qualunque altra cosa voi vogliate aggiungere. Ma ha commesso degli errori sul mercato che forse avrebbero potuto cambiare il panorama anche in una società abituata a stazionare a un livello così alto. In particolare due.
Per due errori si intende la cessione di due giocatori, entrambi tedeschi con presenze nelle selezioni giovanili ad ogni livello, che hanno in comune l'essere stati formati nelle giovanili della più prestigiosa squadra di Germania e, curiosamente, un'esperienza formativa in prestito al Bayer Leverkusen.
Parliamo di Toni Kroos del Real Madrid ed Emre Can del Liverpool.

Kroos, classe 1990, non ha bisogno di presentazioni. Il suo palmares personale oggi assomma 22 titoli, una quantità che, se va bene, di solito hanno squadre intere. Un talento da sempre evidente ci ha messo, ad essere onesti, qualche anno a sgrezzarsi. Di sicuro quattro, vale a dire quelli tra l'esordio col Bayern, la maturazione col Bayer (senza la n finale, quello a Leverkusen) e il ritorno in Baviera. Nel frattempo da "semplice" trequartista e potenziale erede di Ballack l'uomo di Greifswald è diventato uno dei pochi centrocampisti capaci di fare davvero tutto, fuor di retorica. Regista basso, interno, mediano nel centrocampo a due, non fa differenza per Kroos: lui gioca ovunque e ovunque garantisce un rendimento stellare sia tecnico che fisico. Nel 2014, dopo un triplete col Bayern e un Mondiale con la Germania, passa al Real Madrid.
I motivi non sono mai stati del tutto chiari, ma è molto probabile che un giocatore dello spessore di Kroos cercasse una considerazione maggiore di quella che, fino a quel momento, gli stavano concedendo in terra tedesca.

Che anche Emre Can venga dalle giovanili del Bayern però se lo ricordano in meno. Il turco-tedesco classe 1994 sembrava proprio uno dei candidati a raccogliere il testimone lasciato da Kroos in terra bavarese, ma poi le cose sono andate diversamente.
Nasce addirittura centrale difensivo, si sviluppa da centrocampista e arriva ad esordire proprio nel 2012-2013, anno del triplete per i tedeschi. Poi passa, anche lui, alla succursale senza la n finale (dove indossa il 10, per una combinazione numero-nome che in italiano e fingendo che i numeri siano lettere può suonare discutibile) per trovare minuti e crescere. Il Bayern si tiene inizialmente un'opzione di recompra, che però poi abbandona. Così Emre Can nel 2014, anche lui, passa al Liverpool.
Oggi è una delle colonne della squadra, una presenza fissa nella nazionale tedesca e in generale un centrocampista centrale completo, che farebbe comodo a qualsiasi squadra in Europa.

Come detto, il Bayern è una squadra forte. Tipo tra le prime quattro d'Europa. Quindi non solo forte, ma al top assoluto. Quindi stiamo parlando di sfumature, dettagli, vale a dire esattamente quelli che dividono una squadra dal vincere la Champions League al semplice essere eliminati. Una mediana Can-Kroos sarebbe una garanzia per qualunque rosa al mondo, e quindi pure a Monaco. Dove avrebbero potuto averla gratis, invece di inseguire continuamente giocatori di altre squadre da pagare a peso d'oro. 

23 ott 2017

La Juventus è di nuovo tatticamente a metà



Una costante della Juventus di Allegri sembra essere la mancata definizione tattica, almeno a livello definitivo. Anche quest'anno infatti, quando la scorsa stagione sembrava aver segnato la via definitiva del 4-2-3-1, i bianconeri si trovano ancora a cercare la quadra e discutere di moduli e giocatori. Questo a prescindere dai risultati, che sono comunque sempre arrivati derubricando il discorso tattico a poco più di una curiosità.

Andiamo per sommi capi. Fin dal primo anno in cui il tecnico livornese ha raccolto il testimone di Antonio Conte si parla di moduli. Ai tempi sembrava intenzionato a impostare subito la difesa a 4, ma il modulo a 3 dava più certezze e solidità e allora la squadra è tornata al 3-5-2 lavorando progressivamente su altro.
Mandando avanti il nastro fino al 2016/2017 Allegri fin dal mercato sembrava voler puntare su un rombo, ancora un 3-5-2 o al massimo un 4-3-3, ma non trovando un assetto accettabile per il centrocampo ha deciso di varare il 4-2-3-1 inventando Mandzukic esterno di sinistra, modulo che poi lo ha portato a sfiorare un triplete. Resta però una soluzione estemporanea, nata da una situzione in un certo senso di emergenza, per cui la squadra non era stata costruita. E nel finale di stagione, soprattutto il Champions League, il tecnico è tornato a una difesa a tre più o meno mascherata sfruttando Dani Alves come pendolo e allargando Barzagli all'occorrenza come terzino destro.

Arrivati al mercato estivo del 2017 la strada sembrava a tutti abbastanza chiara: la Juventus avrebbe cercato uomini per il 4-2-3-1, in particolare esterni d'attacco. I ricambi sulle fasce infatti in rosa mancavano visto che la squadra era costruita per tutt'altro modulo, nello specifico per un attacco a due punte, e Dybala progressivamente era stato spostato in posizione centrale. Invece, ancora una volta, Allegri ha scelto di mettere in discussione il suo modulo tattico, cercando in particolare il 4-3-3.
L'acquisto simbolo di quest'idea è Blaise Matuidi. Il francese è un arrivo di spessore, ma il suo ambiente ideale è un centrocampo a tre, per quanto viste qualità ed esperienza poi possa adattarsi a tutto. Resta un innesto sintomatico del tarlo nella testa dell'allenatore, uno che, per dire, ha presentato a Coverciano una tesi proprio sui movimenti degli interni in un centrocampo a tre.

La Juventus insomma ha una rosa ampia in tutti i reparti, ma che sembra fatta apposta per tenere aperte più porte possibili. In ogni modulo si può trovare qualcosa che funziona bene e qualcosa che stona a seconda della direzione in cui si guarda. Una situazione che si protrae da un po' troppo tempo per essere del tutto casuale.

5 ott 2017

Alberto Rendo, il Perù e il giorno peggiore della sua vita


Argentina-Perù è una seconda opportunità per tutti: per Sampaoli, che dopo anni da carnefice condurrà la sua prima, grande battaglia dall'altra parte della barricata; per il Perù, che otto anni fa scivolò sotto la pioggia nel momento decisivo; per Messi, Di Maria e tutta la generazione che vive con i fantasmi dello scorso biennio e deve evitare il colpo di grazia della mancata qualificazione al suo ultimo mondiale; persino per la Bombonera, che fu il teatro della stessa sceneggiatura il 31 agosto del 1969 e non fu riuscì a piegare il verdetto. Non sarà una seconda opportunità solo per Brindisi, Rulli, Rendo e il resto della squadra che quel giorno affrontò il Perù alla Bombonera e, a distanza di quarantotto anni, parla ancora di quel giorno come il più grande trauma vissuto in carriera.
“E' stata la peggior esperienza della mia vita” ha raccontato Alberto Rendo, forse il più acclamato di quell'incompiuta Seleccion, in un'intervista che costituisce un capitolo del libro “Así Jugamos” di Borinsky e Vignone, sulle venticinque partite più iconiche della storia albiceleste. Rendo è l'ambasciatore di quella partita nel mondo: ha segnato un gol e ne porta ancora avanti il ricordo, descrivendo quelle ore nei minimi particolari.

Lo chiamano “Toscano” dal giorno in cui, da ragazzino, una zia lo accompagnò agli studi cinematografici della CIFA per un provino da attore in un film sulla pallacanestro. Il famosissimo attore e regista Armando Bó stava girando il film e quando lo vide, trovò in lui una somiglianza con Andrés “Toscanito” Poggio, un bimbo prodigio che qualche anno prima era diventato una celebrità in tutto il Paese girando “Pelota de Trapo”, la madre di quelle pellicole di direct cinema che prendevano spunto un po' dai racconti di Borocotó"su El Grafico, scelto come sceneggiatore, un po' dal neorealismo, e documentavano le giornate dei ragazzini poveri, sempre di corsa dietro al pallone. Del film non si fece nulla, ma fu un comunque un provino a cambiargli la vita: a 17 anni, quando lavorava ancora in una fabbrica di calzature, si allenò a Parque Patricios sotto gli occhi del teorico de “La Maquina” Carlos Peucelle, che telefonò in AFA e fece tenere da parte la numero sette dell'Albiceleste giovanile. Nel 1958 debuttò in Primera con la maglia dell'Huracan e segnò un doppietta. Diventò un giocatore fondamentale del campionato argentino e un referente assoluto del Globo, di cui peraltro era tifoso, con cui instaurò un rapporto d'amore reciproco che non venne rotto nemmeno dal suo passaggio al San Lorenzo nel 1965. Quando a Parque Patricios si seppe la notizia del trasferimento, i tifosi dell'Huracan si presentarono a bordo di due furgoni davanti a casa Rendo, a Pompeya, chiedendo al loro pupillo il motivo della partenza. Alberto, però, non ne sapeva nulla: all'epoca la volontà del giocatore valeva un decimo del peso specifico attuale, nell'economia di una trattativa, ed erano i soli presidenti ad aver voce in capitolo. Quello dell'Huracan, Carmelo Marotta, in cambio del suo gioiello intascò la cifra record di venticinque milioni di pesos più cinque giocatori, ma per la hinchada quemera non fu un'argomentazione sufficientemente valida per impedir loro di montare sulle camionette, dirigersi verso la casa funeraria gestita dal presidentissimo e prenderla a sassate. Rendo, dal canto suo, passò anni importanti anche al Cuervo, ammettendo di essere tifoso dei rivali, ma giurando che avrebbe difeso i nuovi colori come se fossero quelli del suo cuore. Nel 1968 vinse un Campionato Metropolitano nella squadra che passerà alla storia come i Matadores e fu proprio da giocatore del San Lorenzo che Rendo arrivò alla partita più importante della sua vita.

Il gironcino di qualificazione non fu dei più impietosi: Bolivia e Perù. Alla guida della Selección c'era una divinità vivente come Adolfo Pedernera, chiamato in corsa da una federazione già all'epoca disastrata mentre era allenatore dell'Independiente. L'ex leggenda riverplatense ricevette alcune critiche per le scelte nelle convocazioni, con cui chiamò principalmente i suoi uomini di fiducia al Rojo. E Rendo? “Se si fa male un centrocampista, lo porto”. Le prime due partite di qualificazione agli ordini di Pedernera furono un disastro: due sconfitte, entrambe in trasferta. Nel frattempo, il capitano Antonio Ubaldo Rattin, totem assoluto, ma ormai a fine corsa, si infortunò, lasciando spazio per le ultime due partite ad Alberto Rendo. “Toscano” era un calciatore di primissimo piano nel calcio argentino di quegli anni, ma pur essendo una presenza frequente in Albiceleste non riuscì mai a giocare un mondiale: nel '62 non venne chiamato pur essendo nel suo miglior periodo, nel '66 era un titolare, ma un litigio col “Toto” Lorenzo gli costò il viaggio in Inghilterra. Gli restava Mexico '70, per cui ancora tutto era in discussione: con due vittorie, l'Argentina sarebbe passata.
Contro la Bolivia non giocò, ma bastò un gol su rigore del Tucumano Albrecht per far sì che si decidesse tutto il 31 agosto 1969 alla Bombonera, contro il Perù. Con un solo risultato su tre a disposizione.

Ancora oggi, quella del pupillo di Pelè Teofilo Cubillas, di Hector Chumpitaz, del “Chito” De La Torre e del suo allenatore, Didi, viene ricordata come la migliore generazione della storia del fútbol andino. Ma Rendo non voleva e non vuole sentire storie: “Non erano dei crack come pensa la gente”. In campo, però, per i primi quarantacinque minuti sembrarono esserci solo i peruviani, e Rendo li osservava affamato dalla panchina. Talmente affamato che corse a muso duro da Challe, colpevole di lanciato la palla in testa a un argentino. Pedernera decise di metterlo in campo per il secondo tempo, appena in tempo per il vero inizio della partita: “El Cachito” Oswaldo Ramirez, il secondo miglior marcatore della storia della Liga Peruana, sbloccò subito le marcature. Fu un duro colpo, ma la presenza di Rendo aveva completamente cambiato la partita: l'Argentina aveva iniziato ad attaccare con più frequenza e proprio “Toscano”, un metro e sessantasei di tecnica alla soglia dei trent'anni, si inventò un rigore da manuale, agganciandosi con la gamba a un difensore avversario. Albrecht non fallì dal dischetto l'1-1. Ma il Perù, a dispetto di Rendo, era un avversario difficile da mettere in riga e Ramirez, uno che “non aveva ancora segnato prima di quel giorno”, mise il secondo. La partita sembrò sfuggire del tutto, ma Orlando De La Torre lasciò il Perù in dieci per un'ingenuità e l'attacco albiceleste si infiammò di nuovo: tacco di Yazalde per Rendo, che saltò due uomini, cercò la rete, trovò il palo e infine si avventò sulla ribattuta a porta vuota. 2-2, quando mancavano una manciata di minuti prima del fischio finale, e gli argentini si sentivano molto più vicini al lieto fine. Nell'ultimo minuto, infatti arrivò il gol: Marcos infilò in rete con un colpo di testa, ma l'arbitro non lo convalidò, apparentemente per fuorigioco di Perfumo, tanto che Rendo si fiondò dall'arbitro e lo apostrofò malamente. Il gol, però, era stato annullato per fallo di Yazalde sul portiere Rubiños, ultima scena di una partita da film.

Nello spogliatoio albiceleste l'atmosfera era tragica: in un angolo fumava Pedernera, al termine di un'avventura che non rese onore al maestro di calcio a tutto tondo che era stato sia da giocatore che da allenatore. Ebbe le sue responsabilità in quella disfatta, e non esitò un solo secondo a caricarsele sulle spalle, con la solita eleganza che fu l'essenza della squadra più forte del calcio argentino. Molti altri piangevano nello spogliatoio. Rendo, ancora in preda all'adrenalina della sua miglior partita in albiceleste, si infilò nel vapore della doccia e uscì diversi minuti dopo, quando a circondarlo rimasero prima le quattro mura dello spogliatoio vuoto, poi la stessa Bombonera vuota, poi la lunga strada che porta fino a Pompeya, percorsa tutta a piedi e passando dietro al campo dell'Huracan, vuoto pure quello, poi le quattro mura di una casa altrettanto vuota, e infine le coperte del suo letto, dove si rifugiò allucinato, mangiando una tavoletta intera di cioccolato.
Il Perù andò ai Mondiali e cadde ai quarti di finale contro un Brasile inarrivabile per chiunque. Paradossalmente, anche Rendo prese un aereo per il Messico, ma con un anno di ritardo: nel '71, dopo aver giocato altre ventotto partite con l'Huracan, si trasferì al Santos Laguna. Dopo quel pomeriggio, non vestì mai più la maglia albiceleste.




Foto: Mundo D - La Voz

15 set 2017

De Boer ha bisogno di un consigliere


Su Frank de Boer si possono dire molte cose, e sinceramente in Italia se ne dicono pure troppe visto che dopo, ma anche durante, la sua esperienza all'Inter è entrato nel gioco delle fazioni così tipiche del nostro paese. Tuttavia c'è una questione che lui dovrebbe assolutamente affrontare: trovarsi dei collaboratori in grado di consigliarlo nelle sue scelte. Non escludo li abbia già ora, che si parli di suo fratello, di ex compagni, amici o membri del suo staff, semplicemente ad oggi i loro consigli o non hanno attecchito o sono stati drammaticamente sbagliati. E troppi errori di fila alla fine si pagano.

Come ormai è noto a ogni latitudine, de Boer è stato esonerato dal Crystal Palace dopo il tempo record di 77 giorni e uno score orrendo che recita 0 punti e 0 gol segnati in 4 partite. Senza entrare nel merito della questione, l'errore dell'olandese sta a monte: de Boer non doveva accettare una squadra come il Palace. Anzi, ancora più a monte non doveva nemmeno pensare di allenare in Premier.
L'ex colonna di Ajax e Barcellona infatti gioca, o vorrebbe giocare, un calcio anni luce distante da quelli che sono tutti gli stilemi classici del calcio inglese. Andare ad allenare una squadra di fascia media in un campionato inadatto è il preludio a un fallimento annunciato, a meno di miracoli o radicali cambiamenti a livello personale in termini di idee. Nessuna delle due cose si è avverata, e l'avventura è stata un disastro, anche a causa di errori talmente clamorosi dei giocatori da sembrare voluti (e qui i tifosi dell'Inter potrebbero sentir suonare qualche campanello nella stanza dei ricordi).
Tanto per capirci, persino un allenatore con le capacità e il carisma di Guardiola, uno a cui chiaramente de Boer si ispira, dopo un anno al City ha rivisto alcune delle sue idee più classiche. Cosa pensava di poter fare de Boer allenando Lee Chung Yong, Loftus Cheek e Fosu-Mensah?

Qui, appunto, arriviamo al discorso del consigliere. Sbagliare in modo così chiaro ed evidente una scelta di carriera essendo praticamente appena uscito da un mezzo disastro all'Inter inizia ad essere preoccupante.
Nella scelta dei nerazzurri infatti de Boer aveva delle attenuanti che, tutto sommato, giustificavano i rischi: una possibilità probabilmente inaspettata dopo una certa attesa, per di più in una squadra di blasone, per quanto in difficoltà, con una nuova proprietà che sembrava sul punto di cambiare del tutto le carte in tavola. Poi sappiamo tutti com'è finita, a testimonianza del fatto che anche l'Inter sia stata una scelta sbagliata. Tra l'altro con un presupposto simile a quello del Palace: il calcio dell'olandese in Serie A è difficile da proporre e servono tutti i tasselli ambientali a posto.

Una scottatura, nella prima esperienza fuori dall'Olanda, poteva starci. La seconda di fila, ancora peggiore se possibile, indica che de Boer non capisce a cosa va incontro, per qualche motivo che ovviamente non possiamo sapere. E in realtà pure all'Ajax ha prolungato la sua esperienza per qualche anno di troppo quando poteva chiudere in bellezza.
Per farvi un esempio di un tecnico con una filosofia comunque forte che però ha saputo scegliere prendo Luis Enrique. Dopo i problemi a Roma è tornato nella Liga, dove il suo calcio poteva attecchire, e alla fine è tornato al Barcellona. Dopo aver vinto tutto potrebbe anche non allenare più ad alti livelli in stile Rijkaard.

Presunzione, convinzione delle sue idee, chiamatela come volete: al tecnico olandese serve assolutamente qualcuno che gli dia una percezione diversa e più precisa del reale, per evitare continui frontali coi muri. Altrimenti rischia di bruciarsi la carriera già adesso, con meno di 300 giorni da allenatore fuori dal suo Ajax. Certo, sull'esempio di quanto successo a Brian Clough potrebbe scriverci dei libri. Ad oggi ha materiale per due, rischia di diventare una saga.

31 ago 2017

Il bivio di Claudio Marchisio


Claudio Marchisio è indubbiamente un giocatore importante per la Juventus. Ma a questo punto della sua carriera, che pure certamente non è al tramonto, va fatta una distinzione chiara tra l'utilità tecnica effettiva, di campo, e quella di leadership, di immagine ed emotiva.

La carriera di Marchisio infatti è in un momento critico in bianconero. Il Principino ha avuto una crescita impressionante nel corso degli anni, passando da elemento rimasto in rosa quasi per caso in seguito a Calciopoli a titolare fisso con peso sempre crescente. Gli anni di Conte hanno portato la consacrazione come carrillero, per dirla alla spagnola, ma il suo sviluppo sia tecnico, che di personalità, che di comprensione del gioco hanno portato a promuoverlo come nuovo fulcro del gioco della Juventus dopo l'addio di Andrea Pirlo. Un'investitura non di poco conto. Certo, avere accanto Pogba e Vidal aiutava, ma questo non toglie i meriti del numero 8.
L'anno scorso però le cose sono cambiate. Marchisio ha culminato un 2015-2016 piagato dagli infortuni con la rottura del legamento crociato e questo ha chiaramente lasciato un vuoto nel centrocampo di Allegri per il 2016-2017. Non a caso il tecnico ha impiegato mesi prima di sistemare la sua formazione, optando infine per il varo di un nuovo modulo.
Nel 4-2-3-1, come ovvio, c'è però spazio per soli due centrocampisti. E qui nasce un problema, perché tra la necessità di recupero fisico post rottura dei legamenti e l'ottimo rendimento di Khedira, sorprendentemente anche come continuità fisica, e Pjanic all'improvviso non c'era più un posto da titolare per il vicecapitano bianconero. E questa situazione, di fatto, prosegue ancora oggi, una stagione dopo.
Il nodo è che Marchisio è un centrocampista completo, capace di fare tutto, ma che non ha delle qualità tanto spiccate da superare Khedira o Pjanic in qualcosa di specifico tanto da giustificarne il panchinamento costante. E ora ha la concorrenza anche di Matuidi e e il giovane Bentancur alle spalle. Di conseguenza gioca nei ritagli che gli trova Allegri.

Marchisio però non è il Rincon o il Lemina di turno. A livello di leadership e spogliatoio è una figura importante, forse anche decisiva per gli equilibri. Tifoso bianconero, cresciuto nelle giovanili, simbolo della rinascita e delle vittorie post 2006, ha uno status tale che rende la sua presenza in panchina una nota decisamente stonata. E qui subentra il lato emotivo, di immagine. Marchisio non è un giocatore come tutti gli altri soprattutto per i tifosi della Juventus, soprattutto dopo l'addio di Bonucci. Infatti quando ogni tanto escono delle suggestioni di mercato non sono prese bene dalla piazza. Lasciano il tempo che trovano, ma sono un sintomo chiaro: Marchisio in panchina è una storia strana, che non può durare troppo a lungo.

Il lato emotivo, legato a quanto il centrocampista fa presa sul pubblico, e di immagine è totalmente su una via opposta rispetto a quello tecnico. E in queste condizioni una cessione di Marchisio, magari dopo un buon Mondiale 2018, non sarebbe sorprendente da parte di una società come la Juventus. Che non a caso sta cercando ancora altri centrocampisti. 


27 ago 2017

La Plata è una città per vecchi

Il club Estudiantes de La Plata, uno dei più vincenti della storia del calcio argentino e sudamericano, è finito in un paradosso temporale. O almeno voglio sperare sia così, per trovare una spiegazione alla composizione attuale della sua rosa.

Per far capire in modo immediato il motivo dello stupore, basta vedere la formazione della squadra che ha giocato in Copa Sudamericana contro il Nacional: tra i titolari potete leggere Andujar, Desabato, Braña e Fernandez. Quattro nomi che dovrebbero farvi scattare qualche campanello nella stanza dei ricordi.
Tutti e quattro sono infatti a loro modo monumenti del calcio argentino, ed erano titolari sempre nell'Estudiantes, ma nel 2009, nella finale di Copa Libertadores vinta dal club. Vale a dire otto anni fa. E non erano esordienti, ma giocatori nel pieno della loro carriera.
A centrocampo Braña ha sostanzialmente preso il posto del talento Ascacibar, ceduto allo Stoccarda. In coppia con lui gioca Israel Damonte, facilmente riconoscibile per i capelli platinati: anche lui è un prodotto del vivaio, tornato nel 2013 dopo l'esordio nel 2000. Non ha però vissuto l'epopea vincente 2006-2009. Classe '82, i suoi 35 anni vengono rinfrescati appunto da Braña, che è del '79 e si approssima ai 40. Non che per questo abbia smesso di lottare in campo, come ha sempre fatto.
Parlando di Ascacibar, da sottolineare che l'ex talento del club è nato nel 1997, vale a dire l'anno in cui Leandro Desabato, anche lui classe 1979, ha esordito.

Ma la dirigenza della squadra è andata anche oltre con questa personale operazione nostalgia. Sempre tra i titolari contro il Nacional figura anche Mariano Pavone, storico bomber locale con una parentesi anche in Spagna al Betis. Perché la presenza del Tanque (soprannome di diversi veri numeri nove in Argentina, anche se spesso lo si collega a Santiago Silva) dovrebbe aggiungere un altro mattoncino? Perché Pavone ha esordito nell'Estudiantes nel 2000, ed è stato protagonista di un campionato vinto dai Pincharratas. Nel 2006, quando in pachina sedeva Diego Simeone e lui fu anche vice-capocannoniere con 11 reti. Undici anni fa.
Non finsice qui, perché anche dalla panchina c'è un vecchio leone pronto a subentrare, un altro prodotto del vivaio appena tornato in biancorosso, anche lui tra i giocatori campioni nel 2006: el Payaso Pablo Lugüercio, noto anche per la sua lunga militanza nel Racing Avellaneda.


Sembra una trama da film: la squadra del 2006-2009 è stata trasportata nel futuro, e si trova a giocare il calcio del 2017. Chi mai potrebbe aver messo in piedi tutto questo? Chiaramente il simbolo e l'anima di quella squadra, il presidente del club Juan Sebastian Veron, uno che non ha bisogno di presentazioni. E soprattutto, uno che gioca ancora: il 26 dicembre 2016 si è riunito con i dirigenti mettendosi davanti a uno specchio, è tornato dal ritiro e ha firmato un nuovo contratto da giocatore con l'Estudiantes. Presidente-giocatore, con cinque presenze in Libertadores. Occhio a dare per scontato che non torni ancora anche lui, per ritrovarsi coi vecchi amici.

8 giu 2017

Zidane è meglio di quanto si pensi


Sembra passato un secolo, ma Zidane è l'allenatore del Real Madrid "solo" dal 4 gennaio 2016.  Un anno e sei mesi quasi esatti. In questo lasso di tempo il francese ha compiuto un salto di carriera tale da far impallidire persino la parabola di Guardiola, il massimo rappresentante della categoria dei tecnici giovani esplosi in poco tempo. E non solo per le vittorie, ma per la crescita netta delle sue capacità specifiche da allenatore.

Riavvolgendo il nastro infatti ci si dovrebbe ricordare che Zidane allenava il Real Madrid Castilla, la squadra B, senza nemmeno troppo successo. La sua promozione è arrivata dopo l'esonero di Rafa Benitez, e la scelta era dovuta sia al fatto che era già sotto contratto, sia all'importanza della sua figura. Zidane infatti ha l'innegabile vantaggio di essere, appunto, Zidane, cosa che da sempre oltre al resto dispone singolarmente bene Florentino Perez. Avere il presidentissimo del Real schierato dalla propria parte è di solito un ottimo punto di partenza.
Subentrando a un tecnico come Benitez, sicuramente capace tatticamente, ma altrettanto spigoloso nei rapporti, il suo compito era abbastanza chiaro: riportare serenità in una rosa stellare. Un ruolo principalmente psicologico, da gestore più che allenatore, perché per il resto al Real non serviva chissà quale invenzione, ottimamente svolto da Zidane, tanto da portare un gruppo che sembrava allo sbando a un'inaspettata vittoria in Champions League. Guarda caso il trofeo preferito di Florentino, che tanti anni fa volle proprio il trequartista francese per vincerla.

Malgrado la vittoria però un anno fa era difficile considerare Zidane un grande allenatore. Vincere è sempre un merito, ma il cammino in Champions non era stata proprio una cavalcata trionfale, e la squadra aveva mostrato parecchi limiti praticamente in ogni partita, pur riuscendo a sfangarla. Forse la gara meglio gestita era stata la finale contro l'Atletico, vinta comunque ai rigori: un primo indizio delle capacità specifiche del francese nelle gare secche (oltre che del suo status di predestinato).

Partendo dall'inizio Zidane poteva sciogliersi alla Di Matteo. E invece il 2016-2017 è stato l'anno della sua consacrazione.
Il primo Real Madrid che possiamo definire compiutamente suo ha mostrato tali e tanti segni di miglioramento da costringere a riconsiderare lo status dell'ex fuoriclasse anche da allenatore: non è solo un gestore, è proprio bravo ad allenare una squadra del livello del Real Madrid. In particolare grazie a una capacità tanto unica quanto rara: ZZ lascia uno spartito tattico relativamente semplice, senza le elucubrazioni alchemiche di un Guardiola, in cui la squadra si muove ormai a memoria, per poi concentrarsi su soluzioni specifiche da sfruttare nelle gare più importanti, sia all'inizio che a gara in corso. Certamente la qualità dei suoi uomini lo aiuta, ma avere la disponibilità dei fuoriclasse a questi livelli è un ulteriore merito.

Così come è da considerare un merito la gestione degli uomini a disposizione, perché Zidane, dopo aver cercato e trovato l'equilibrio, ha saputo prendere decisioni pesanti. Lo dimostra in parte lo spazio trovato a un giovane come Asensio o quello ritagliato per Lucas Vazquez, lo confermano soprattutto le scelte, anche dolorose, nei confronti di acquisti onerosi come Kovacic, Danilo e soprattutto James Rodriguez. Ma il vero emblema della gestione Zidane è stata la decisione di utilizzare Isco a discapito di Gareth Bale in finale di Champions League. Vero che il gallese è stato quasi autoescluso dagli infortuni, ma l'allenatore transalpino ha saputo comunque resistere alla pressione dell'ambiente, ottenendo un trionfo sia dal punto di vista tattico, che da quello "gestionale".

Punto finale a favore, la gestione dei minuti di Cristiano Ronaldo. Non è un tema tipico del calcio, ma Zidane ha fatto in modo di avere il suo giocatore di riferimento (con buona pace di tutti gli altri fenomeni) riposato e il più possibile fresco proprio nel finale di stagione. Forse non è un caso che Ronaldo abbia giocato la sua miglior finale di sempre malgrado i 32 anni.

La figura di Zidane è cresciuta a trecentosessanta gradi, e ora tutti devono fare i conti con lui.

6 giu 2017

La Juventus e il centrocampo


Partiamo da un riassunto estremamente sintetico: la Juventus ha un problema a centrocampo.
La cosa non è percepibile a livelli "normali" perché i bianconeri sono superiori agli avversari appunto "normali" (leggi, principalmente, la Serie A al completo), ma quando si alza il livello la tassa si paga. Chiedere a Casemiro, Modric e Kroos.

Il problema, come spesso capita, nasce da lontano. Negli ultimi anni il club ha dovuto ovviare alle partenze di Pirlo, Vidal e Pogba, tutti giocatori di grande spessore anche se per motivi diversi. Colmare un simile vuoto non è semplice nemmeno per una squadra molto solida sul campo e altrettanto preparata a livello dirigenziale.
In particolare Pjanic, uno dei grandi acquisti della scorsa estate, pur con alcuni colpi indubbiamente di alta qualità, non ha mostrato il livello necessario, e infatti ha peregrinato per il campo alla ricerca del ruolo più congeniale (una costante della sua carriera).
Non a caso nel corso di questa stagione Allegri ha preso una decisione precisa: cambiare modulo passando come riferimento principale dal 3-5-2 al 4-2-3-1. Il motivo non era unicamente di sfruttare il potenziale offensivo al meglio, ma soprattutto di risolvere il problema del centrocampo.
Nei primi mesi di stagione infatti il tecnico ha faticato non poco ad assemblare i vari Khedira, Marchisio (quando disponibile), Pjanic e compagnia di secondo piano, scegliedo a un certo punto di risolvere il problema semplicemente eliminandolo. La Juventus ha spostato il suo baricentro, e di conseguenza i dilemmi della fase difensiva altrui, dalla propria mediana alla propria trequarti offensiva. L'intuizione di Allegri è stata per certi versi geniale.
Ha funzionato, ma in realtà la questione centrocampo è rimasta aperta, per quanto mascherata.

Giocare a 2 o a 3 in mediana non è la stessa cosa, specie cambiando anche l'assetto difensivo. Khedira e Pjanic, i titolari di Allegri, si sono disimpegnati anche bene fino al secondo tempo della finale di Cardiff, sfruttando gli spazi e l'attenzione che la nuova linea offensiva pesante gli ha concesso. Meno attenzioni, più rendimento. Ma proprio su loro due la Juve deve riflettere: vanno bene o vanno cambiati per cercare un upgrade? E se sì, con chi?
La questione non è affatto semplice. Khedira nella sua carriera è sempre stato un magnifico role player sia in nazionale che nei club, ma Allegri quest'anno, con questo modulo, gli ha chiesto qualcosa in più. Nel breve ha anche funzionato, ma in futuro? Il tedesco è un classe '87 e questa stagione senza infortuni è un'eccezione nella sua carriera. Prenderà in mano lui il reparto? E come?
Pjanic dal canto suo semplicemente è Pjanic. Un magnifico talento, che vive di colpi, sprazzi, intuizioni, singole partite. Può essere acceso o spento, e non c'è modo di saperlo prima. Nemmeno il più organizzato, solido e in definitiva forte sistema bianconero è riuscito a normalizzare il suo rendimento. I lampi singoli possono bastare in partite di minor livello (e ripeto, questo basta per vincere il campionato allo stato attuale delle cose), ma per cercare un salto di qualità non si può vivere di scommesse continue. Chiaramente non sarà ceduto, ma è difficile che un giocatore così possa prendere in mano il reparto.
Ci sarebbe poi un certo Marchisio, per certi versi il grande assente della Juventus 2016-2017. Il numero 8 è stato il grande sacrificato di Allegri sull'altare del nuovo modulo: lui che nel 3-5-2 doveva essere, mutatis mutandis, l'erede di Pirlo con solo due posti non è più stato la prima scelta, magari anche per i problemi fisici. Di fatto è stato retrocesso, e anche questa situazione richiederà una scelta precisa: si ripartirà da Marchisio? Togliendo chi? Diventerà definitivamente un'alternativa? 
Proprio per le lacune di loro tre, fisiche, tecniche o di altro genere che siano, Allegri ha deciso di cambiare modulo rimandando il problema. Ma in estate qualcosa dovrà succedere.

Gli avversari poi, dopo aver sofferto per mesi la nuova struttura tattica, naturalmente lavoreranno per adattarsi, e allora la vita dei due mediani potrebbe diventare all'improvviso più difficile.
La coperta è più corta di quello che sembra, e vive di un ulteriore fattore esterno al centrocampo in senso stretto: il lavoro fisico di Mandzukic lo può fare solo Mandzukic. Ma anche il croato è un punto interrogativo per il futuro, almeno come titolare, soprattutto se la Juve cercasse più qualità offensiva. Con Mario fuori dal campo il lavoro dei due mediani potrebbe essere ancora più tassante, lasciando un buco imprevisto, e troppo grande, nel centrocampo bianconero.

25 apr 2017

Il Barcellona e il dilemma Messi

Il Barcellona è in un momento sportivo non semplice, specie per le altissime aspettative legate al club nell'ultimo decennio. Ma l'immediato futuro promette di essere ancora più complicato, per una serie di motivi tutti collegati a un solo nome: Lionel Messi.

Partendo dalle cose ovvie, le fortune del Barcellona negli ultimi anni sono strettamente legate al rendimento del suo fuoriclasse col numero 10, e di conseguenza ai suoi umori. Messi infatti ha un carattere particolare, probabilmente più difficile di quello che mediamente si pensa, che influenza parecchio il suo rendimento sul campo.
Coinvolgerlo e convincerlo sono in realtà i primi obiettivi di chiunque si voglia sedere sulla panchina dei blaugrana, perché se Messi è disposto a sacrificarsi e fare certe cose il panorama cambia anche in una rosa del livello del Barcellona. O meglio è più influente il rovescio della medaglia: una Pulce capricciosa comporta una serie di problemi tale da far crollare gran parte del castello malgrado una rosa del livello del Barcellona.
Non è un caso che la storia di Luis Enrique come allenatore sia totalmente cambiata quando Messi, per qualche motivo, ha deciso di tornare a giocare sull'esterno di destra, lasciando a Suarez il ruolo di centravanti. La stagione 2014-2015 non era iniziata così e senza quello spostamento solo in apparenza ininfluente è probabile che il Barcellona non avrebbe centrato il suo secondo triplete.
Come l'allenatore lo abbia convinto è una cosa che sanno solo Luis Enrique e il suo attaccante argentino. In compenso in questa stagione, a due anni di distanza, Messi ha presentato il conto: a un certo punto, ancora per motivi che può sapere solo lui, è entrato in sciopero e l'allenatore ha potuto solo adeguarsi, varando una formazione senza capo né coda col solo scopo di compensare tutto quello che Messi non aveva (più) voglia di fare. Se lo vedete giocare in questo periodo, il 10 è parecchio statico in zona centrale, o sulla trequarti o verso l'area di rigore, pur mantenendo la pericolosità propria dei fuoriclasse. Gli altri devono girargli attorno, sia per cercare spazi sia per coprire il campo (che molto spesso per il Barcellona di oggi è diventato lunghissimo).

Questo è il presente, e vede il Barcellona comunque in corsa per campionato e Copa del Rey, con "solo" un'eliminazione brutta e cocente in Champions League come ferita aperta. Ma i veri problemi inizieranno allo scadere della stagione 2016-2017. Vale a dire quando Messi entrerà nell'ultimo anno del suo contratto col club. Avere il proprio simbolo nonché uno dei migliori giocatori di sempre libero a zero nel 2018 ha fatto scattare tutti gli allarmi in casa catalana già da qualche mese. La situazione però è intricata, più di quanto tutti vorrebbero.

Messi attualmente è il giocatore che guadagna di più al mondo. E una fetta importante di questi guadagni viene dallo stipendio che gli versa mese per mese il suo club. L'argentino si è procurato questo riconoscimento sul campo, ma nel 2018 lui che è del 1987 avrà 31 anni e dovrà firmare l'ultimo contratto veramente importante della sua carriera. Il che, di solito, fa rima con cifra più alta possibile.
Il Barcellona cosa ne pensa? Il club, malgrado sia uno dei più ricchi al mondo per fatturato, non è in condizione di far firmare il suo fuoriclasse di riferimento in bianco, perché il bilancio è una cosa seria e Messi non è l'unico che deve essere pagato mensilmente. Anzi a quanto pare la dirigenza sarebbe proprio dell'idea di chiedere un sacrificio: ti abbiamo preso a 13 anni, ti abbiamo curato, ti abbiamo dato tutto, grazie anche a te del contributo, ma ora che sei all'ultimo contratto lungo ci fai uno sconto. Che magari vuol dire firmare "solo" per 25 o 30 milioni, ma comunque uno sconto.
Due posizioni chiaramente distanti, che infatti al momento non stanno trovando un punto di incontro. Schermaglie normali in affari di queste dimensioni? Forse, ma come dicevamo prima occhio al carattere di Messi: se le cose non vanno come dice lui può anche scegliere di chiudere i discorsi. A risentirci tra un anno, quando sarà praticamente in scadenza e con qualche offerta da capogiro per le mani come obbligo per i catalani.

E qui torniamo al discorso tecnico: Luis Enrique, vale a dire l'uomo che ha rivitalizzato il Barcellona post Guardiola anche grazie al suo rapporto con Messi, a fine stagione lascerà la panchina blaugrana. E il prossimo tecnico andrà scelto anche, se non solo, in base al gradimento di Messi, come già successo nel caso più evidente per Martino.
La scelta sarà indirettamente un elemento intangibile del rinnovo: la dirigenza cercherà di accontentare l'argentino per farlo rimanere o agirà in previsione di un suo possibile addio?

Il coltello dalla parte del manico sembra averlo Messi per status anche coi tifosi, influenza sui risultati, storia personale. Una tradizione del Barcellona però è cedere i propri simboli appena entrano in parabola discendente, per sostituirli con qualcuno degno di raccoglierne l'eredità. Messi, ad esempio, ha rilevato maglia e ruolo di Ronaldinho. E Neymar sembra non aspettare altro. Succederà ancora?

3 apr 2017

Se ne devono andare, tutti. Y lpqlp.


L'Argentina ha il potere di trasformare coloro che la seguono in persone anziane. Non per una strana maledizione che colpisce il fisico, quanto nella condanna tipica dell'età avanzata del ripetere sempre le stesse cose. Dimostrazione? A Novembre le suddette cose stavano così. Ma solo pochi mesi prima, vale a dire a Giugno (anzi, quasi Luglio) non è che la situazione fosse realmente diversa. Oggi, e siamo a Marzo 2017, meno di un anno dal post cronologicamente più vecchio, basterebbe un collage per descrivere ancora una volta il pantano in cui si è infilata la nazionale di Bauza.
Ripetere ancora, come i vecchi.

Il nodo cruciale del discorso è tristemente chiaro: se ne devono andare. Non chiedete chi, perché la risposta è semplicemente tutti. La crisi dell'Argentina infatti abbraccia ogni livello dei vari organi che compongono la nazionale.
I giocatori sono la punta dell'iceberg, ma non per questo vanno assolti. Anzi visti i loro cognomi l'accanimento è sostanzialmente minimo per quanto successo nell'ultimo triennio, di cui la gestione Bauza è nettamente il punto più basso. Riassumendo cose dette e stradette, serve aria nuova.
Di Maria merita un discorso a parte perché lui ha chiaramente un problema psicologico, tanto da aver cambiato numero di maglia per cercare una sorta di esorcismo personale. Ma appunto per questo non so se sia un bene caricarlo di ulteriori pressioni e aspettative: come può giocare un altro Mondiale senza impazzire?
Poi c'è Messi che ne merita un altro ancora perché è Messi, e se non altro ci prova davvero sempre.
Per limitarci ai senatori invece il concetto è tutto sommato semplice: Mascherano, Higuain e Agüero partita dopo partita sembrano sempre più uomini prima che giocatori che non hanno più nulla da dare alla camiseta albiceleste. Manca il fuoco, e soprattutto c'è la percezione netta che con questi giocatori l'Argentina sarà destinata a rimanere sempre questa, sempre più a fondo nelle stesse sabbie mobili, salvata solo occasionalmente da qualche guizzo (di Messi).
Il Jefecito, come già detto, non ne ha più, soprattutto a livello di durezza mentale, per stare in mezzo al campo a fare un certo lavoro. Saranno forse anche i 7 anni con oltre 300 presenze nel Barcellona, quasi tutte da difensore centrale, ad averlo cambiato, tecnicamente e psicologicamente, ma l'ultimo Mascherano in maglia albiceleste appare tremendamente in balia delle ondate avversarie. Come cercare di fermare un maremoto con una biglia.
Il Pipita quando cambia emisfero si trasforma non da Superman a Clark Kent, ma direttamente dal primo a Paperoga: in tutte le qualificazioni ai Mondiali 2018 (10 partite) ha segnato un solo gol. Meno di Mercado e Pratto. Cavani, il capocannoniere, è a 9. Ma oltre ai gol per chi lo vede giocare in Serie A colpisce la sua assenza dal gioco, la sua staticità, la sua incapacità di gestire il pallone.
Il Kun ha sempre faticato a trovare la sua nicchia nell'Argentina. Per la presenza di Messi non ha mai potuto essere la stella di riferimento, come sostituto di Higuain non ha mai convinto e come super subentrante il suo impatto è sempre stato limitato, per essere generosi. Dal 2015 però le cose sono peggiorate: un solo gol segnato tra amichevoli, qualificazioni e Copa America, contro Panama al novantesimo sul 4-0, prestazioni sempre più snervanti e abuliche, errori in serie. Un rapporto di fatto mai sbocciato, su cui è inutile accanirsi.

Tutto questo va eradicato per cercare di seminare qualcosa di nuovo. E allora spostiamo l'ottica a colui il quale doveva spargere con sapienza questi semi, un uomo che solo pochi mesi fa era visto come la nuova grande speranza dell'Argentina: Edgardo Bauza.
El Paton è subentrato al dimissionario Martino il 2 agosto 2016, meno di un anno fa. Rappresentava, senza mezzi termini, l'uomo della speranza: il suo curriculum parla per lui, in Argentina e in tutto il Sudamerica è un'istituzione e sembrava proprio la persona giusta, per capacità e carisma, per traghettare la Seleccion in un momento di difficoltà come se ne sono visti pochi. Invece non solo non è riuscito a portare correttivi, ma è diventato uno dei principali baluardi contro il rinnovamento.
Vi ricordate che nelle prime convocazioni sembrava irremovibile sull'esclusione di certi senatori per varare un nuovo corso? La scelta di puntare su Pratto, originariamente, veniva da qui: l'idea era di ridare spirito al gruppo con nomi nuovi, magari meno di grido, ma sicuramente vogliosi, in modo da ritrovare prima di tutto la chimica di squadra. Higuain, per fare un nome a caso, era stato tagliato senza nemmeno dscuterne. Tutto dimenticato, e anzi un tratto caratteristico della Seleccion attuale è proprio il ricorso quasi esclusivo ai giocatori con più esperienza, compresi elementi francamente sostituibili come Romero, Otamendi, Enzo Perez e Biglia. Col capolavoro della convocazione di Ezequiel Lavezzi nelle ultime tornate, un giocatore che sostanzialmente è in pensione dal 2015.
Poi c'è la questione tattica. Bauza nel suo quasi anno di lavoro non ha dato niente sul campo. L'Argentina è sempre più spenta, sempre più ferma, sempre più incapace di sviluppare un gioco organizzato. Solo iniziative dei singoli, sempre più esasperate, e poi ceri accesi ai più influenti tra i santi argentini per portare a casa qualcosa. Se pensate sia un'esagerazione, ci ha pensato Bauza ad esternare precisamente il concetto prima della gara contro la Bolivia.
Da ancora di salvezza a peso che fa arenare la barca, in brevissimo tempo. Senza nemmeno entrare nella questione Icardi, uno stucchevole teatrino, ma marginale rispetto al resto, Bauza è ormai una figura senza alcuna credibilità e quindi il primo che deve adarsene.

Infine, questo caos generale è chiaramente alimentato dall'alto. L'AFA è in una condizione assurda, esplosa in circostanze dai risvolti persino comici dalla morte di Julio Grondona, presidente della federazione dal 1979. Praticamente un dittatore. Finita la sua era, gli squali cresciuti nell'ombra si sono trovati a sbranarsi tra loro e una situazione generale già non semplice per motivi ambientali, politici, finanziari e quant'altro ha iniziato a scivolare sempre più nel grottesco. Lo sciopero indetto dalle squadre argentina di poche settimane fa, arrivato campionato in corso, è un sintomo grave di un problema che va persino oltre.
L'Argentina calcistica è in una crisi profondissima, di cui i risultati sono solo il sintomo esteriore.

29 mar 2017

Vincere in Bolivia è difficile, non impossibile



Dopo l'ennesimo tracollo dell'Argentina il commento più diffuso, dopo gli insulti ad allenatore, giocatori e famiglie, riguarda le condizioni avverse che i giocatori hanno dovuto affrontare allo stadio Hernando Siles di La Paz. Stadio in cui si gioca dal 1931, quindi in teoria non esattamente una condizione a sorpresa.
La struttura in cui la Bolivia gioca le gare casalinghe comunque ha la particolarità di trovarsi a 3.600 metri sopra il livello del mare: giusto per dare riferimenti geografici nostrani, un'altezza che supera il Gran Sasso e la Marmolada, e sfiora il Monviso (3.842 m). Giocare a La Paz insomma è difficile, sicuramente. A quell'altitudine l'aria è rarefatta e questo porta delle conseguenze: il pallone a causa della minor resistenza viaggia più veloce e con effetti imprevedibili, mentre i giocatori si trovano con un'ossigenazione ridotta che causa chiari problemi di tenuta atletica.
Una circostanza che negli anni si è provata ad affrontare in diversi modi, da viaggi più lunghi per abituare il corpo a viaggi più corti per risentirne il meno possibile fino a combinazioni di farmaci per stimolare la circolazione (tra cui il viagra), con risultati altalenanti tanto da non avere ancora oggi una ricetta sicura.
Quello che è sicuro è che persino la Fifa è conscia del problema, tanto da aver posto a 3.000 m di altitudine il limite per partite internazionali già dal 2007. L'Hernando Siles "sopravvive" grazie a una deroga speciale, ma in ogni caso gli stadi alternativi boliviani sarebbero stati oltre i 2.500 m, quindi simili all'Olimpico Atahualpa dove gioca l'Ecuador (2.850 m) e al Campin di Bogotà che ospita la Colombia (2.640 m). Di simili problematiche affrontate in questi impianti però si parla molto, ma molto meno.

Il problema quindi esiste e dicevamo che i commenti circa la sconfitta per 2-0 dell'Argentina hanno spinto molto in questa direzione. Il commentatore di Sky Andrea Marinozzi, per dirne uno, ha più volte sottolineato l'impossibilità di giocare in modo degno in simili condizioni ambientali. Per quanto sia sicuramente problematico, forse è meglio mettere le cose nell'ottica corretta.

La Bolivia di sicuro in casa è molto più forte che in trasferta, tanto che tutte le vittorie della verde nelle ultime tre tornate delle qualificazioni sudamericane ai Mondiali (2010, 2014 e 2018) sono arrivate tra le mura amiche, ma il livello resta comunque basso (forse drammaticamente visto che fuori casa non vincono da 53 partite) anche limitandoci all'ambito sudamericano. Tutti i giocatori convocati giocano in patria (e questo non fornisce grossi vantaggi al di là dell'abitudine all'altitudine) tranne 5, di cui solo uno in Europa, nel Göteborg. Il giocatore più rappresentativo nonché secondo miglior marcatore di tutti i tempi della Bolivia con 15 gol, è Marcelo Moreno Martins, che a 30 anni da compiere si disimpegna nel Wuhan Zhuoer Zhiye Zuqiu Julebu, in Serie B cinese. Nella sua esperienza europea a inizio carriera (Shakhtar, Werder Brema e Wigan) ha messo insieme 10 gol in 46 presenze in tutte le competizioni. Nulla a che vedere col livello medio della selezione argentina, forse nemmeno limitando la scelta agli elementi più giovani.
A migliorare le cose non concorre la gestione della federazione. La FBF infatti si è resa più volte protagonista di scelte assurde e si è distinta per la capacità di scelta degli allenatori, come potete sentire qui al minuto 47.
La Paz comunque, per quanto sia il terreno preferito della Bolivia, non è un fortino inespugnabile. A fronte delle 9 vittorie (più una derubricata a causa di una convocazione irregolare) dal 2007 ad oggi ci sono 7 pareggi e 6 sconfitte (più la vittoria ribaltata della parentesi precedente). Un bilancio positivo, ma che lascia margini di speranza agli ospiti. Evidentemente non all'Argentina, che non ci vince dal 2005 e ha vissuto la sconfitta storica del 6-1 datata 2009, con Maradona in panchina.

14 mar 2017

Lanús – River Plate, 4 febbraio 2017

Scritto da @HaRagioneNonno

Nel calcio succede, a volte, che Davide sconfigga Golia, proprio come nella leggenda biblica. Succede anche che, se Golia è il River Plate di Buenos Aires, la vittoria di Davide appaia ancora piú sorprendente. Bisogna peró essere onesti e dire che il Lanús non è più una squadra piccola del campionato argentino e del panorama sudamericano in generale. Dopo parecchi decenni passati nelle categorie minori, una volta raggiunta la Primera División, il Lanús ci è rimasto costantemente. Negli ultimi anni, poi, ha vinto quasi tutte le competizioni in cui ha giocato. Basta andarsi a vedere il palmarés per vedere la crescita impressionante di questo club di quartiere che ormai è diventato grande.

 Da qualche tempo a questa parte un gruppo di tifosi del Lanús mi ha praticamente adottato e mi porta a vedere tutte le partite. Era quindi impossibile rifiutare l’invito ad andare a vedere la finale della Supercopa Argentina, che si è giocata nel bellissimo stadio di La Plata.
Dopo aver accettato l’invito, ovviamente, nella settimana precedente alla partita, ho vissuto con fremente attesa il giorno dell’incontro. Il mio amico Gastón, tifosissimo del Lanús (e anche del Toro) ha voluto passare la giornata con me, e ho così potuto vivere pienamente l’atmosfera.
Partiamo in macchina da Buenos Aires a metà pomeriggio, passiamo a prendere un altro amico, e affrontiamo il viaggio verso La Plata, a una sessantina di chilometri dal centro della capitale. Il viaggio è carico di tensione, i ragazzi parlano delle altre finali, fanno i loro scongiuri, e percepisco che abbiano un po' di timore verso il River Plate. O forse è solo verso la storia del River Plate. La realtà di questi anni dice che anche il Lanús ha vinto tanto. Inizio a rendermi conto che vedrò una grande partita.

Arriviamo nei pressi dello stadio e dopo aver parcheggiato ci dirigiamo verso l’ingresso. Le stradine nei dintorni dello stadio sono già piene di gente granate che sta iniziando la sua festa. Quello che mi ha sempre colpito delle tifoserie argentine è il livello di festa che riescono a mettere in piedi in ogni situazione. Si nota davvero che per loro quei momenti sono magici. La loro squadra li rappresenta. È una comunione di persone che provengono quasi tutte dallo stesso quartiere, che sono cresciute insieme nel loro stadio. Che hanno vissuto momenti brutti, e che ora, quindi, si godono quelli belli con una gioia invidiabile. Si aprono i cancelli ed entriamo.

Lo stadio è diviso esattamente in due. Il nostro settore si va riempiendo velocemente. Più lentamente, invece, si riempie quello dedicato ai tifosi del River Plate. La tensione sale, e iniziano i cori da parte nostra. Sono circondato dal colore che amo e la cosa mi fa sentire a mio agio. Il settore continua a riempirsi velocemente e ben presto mi trovo in mezzo ad una vera e propria moltitudine di persone. L’arrivo della barrabrava è uno dei momenti più emozionanti. Tamburi, trombe e tanta gente. Sono il gruppo piú numeroso di tifosi. Quello organizzato. Scendono tutti insieme in mezzo al resto del pubblico e prendono posto in mezzo alla curva. La Barra 14 è il gruppo organizzato dei tifosi del Lanús. Colore e canzoni a non finire.
Nel frattempo la barra del River, Los Borrachos del Tablón, tarda ad arrivare. Il loro settore, invece, si sta ora riempiendo all’inverosimile. Riempiono anche i due settori laterali a loro dedicati. Noi siamo sicuramente meno dal punto di vista numerico, ma la battaglia di cori prima della partita è davvero emozionante. Le squadre escono per il riscaldamento e le due tifoserie esplodono di gioia. Passano vari minuti e la tensione a questo punto è alle stelle.


Come dicevo, il tifo del Lanús è un tifo ben delineato. Quello del River Plate è invece difficile da definire. Essendo uno dei club più grandi del mondo, il suo tifo è trasversale. Nel frattempo si scatena un temporale di proporzioni bibliche, per rimanere in tema. Una pioggia incessante che rende, se possibile, ancora piú mistico il momento. Sicuramente, almeno per me, mistico lo è davvero. Le squadre scendono in campo appena dopo l’arrivo della barra del River, che ora canta in maniera incessante. Non me ne vogliano gli amici del Lanús, però è un momento magico. Credo di non aver mai visto, dal vivo, un tifo del genere. Quelli del River cantano in maniera incredibile ed è difficile, per noi, farci sentire. Vista la grande amicizia che lega il Toro e il River Plate devo dire che mi sento comunque a casa. Da un lato il colore granate, per cui oggi farò il tifo. Dall’altra parte il River, squadra a cui voglio bene e che rispetto tantissimo.

Il primo tempo della partita è ricco di occasioni per il Lanús, che si mangia due gol proprio sotto il nostro settore. Lo spettacolo delle tribune è altrettanto bello. Noi non smettiamo mai di cantare e altrettanto fanno loro. Il tempo scorre veloce e finisce il primo tempo. Finalmente un attimo di pausa. La gente si guarda perplessa. Un primo tempo molto ben giocato contro un River che non smette un attimo di pressare. Due gol falliti. La scaramanzia comincia a prendere piede. Il secondo tempo comincia e ora i tifosi del River fanno impressione. Cantano e saltano senza tregua. 25.000 persone circa che non mollano un momento. Il Lanús, però, non smette di giocare e si avvicina alla porta. Al 25’ minuto, poi, Lautaro “Laucha” Acosta, uno dei massimi idoli del granate, insacca il pallone con una sassata da dentro l’area di rigore. È il delirio. Da quel momento in poi è un monologo granate.
Arrivano il secondo ed il terzo gol e ormai il risultato è in cassaforte.

Come spesso accade in Argentina, la tifoseria della squadra che perde non ci sta. Quelli del River, adesso, si alzano tutti in piedi e cantano i loro cori piú forte di prima. Innalzano i loro colori e non mollano un secondo. Noi facciamo davvero fatica a farci sentire, nonostante il Lanús stia dominando la partita e abbia praticamente vinto la Supercopa e, di conseguenza, la sua sesta stella. Va in scena uno spettacolo meraviglioso. Due tifoserie che gridano con orgoglio e passione, con amore ai loro colori e per onorare uno sport. Per onorare lo sport piú bello del mondo. Perché anche se il terreno di gioco non è perfetto, anche se in campo non ci sono gli idoli palestrati del calcio da Playstation, o forse proprio per questo, lo spettacolo di oggi assume i contorni dell’autenticità. Qull’autenticità che tanto si va perdendo in altri posti.

Finisce la partita e noi esplodiamo di gioia. La gente si abbraccia e canta. Il trofeo andrà a Lanús e il miracolo di questa società continua. Mentre i giocatori vengono sotto la curva a festeggiare, dall’altra parte dello stadio nessuno se ne va. È festa anche fra chi ha perso, oggi. Per me è un’emozione enorme. Come dico sempre, di questo si tratta il calcio. Di questi momenti e di queste sensazioni. In fretta e furia viene organizzata la premiazione e i giocatori portano la coppa sotto il settore. Passano vari minuti e la festa continua. Ora sì il settore del River si svuota, mentre noi dobbiamo attendere dentro lo stadio. Ricomincia il diluvio mentre attendiamo di uscire. Poco importa se ci bagneremo, se dovremo camminare vari isolati sotto la pioggia per tornare alla macchina. Siamo felici e va bene così. Finalmente ci lasciano uscire e un fiume di gente si riversa nelle vie circostanti.

Il ritorno in macchina è una lunga carovana di auto e pullmini con bandiere granata ai finestrini. Attraversiamo vari quartieri e partono i cori verso la squadra di turno. Arriviamo a Lanús che sono ormai le 2 del mattino. La piazza della stazione è piena di tifosi che festeggiano e, come di rito, mi portano a mangiare in una pizzeria della stazione. È un covo storico di tifosi e ritrovo per il dopopartita.
Ancora una volta ho avuto la fortuna di vivere un giorno indimenticabile. Una bella partita, la vittoria di una coppa, due tifoserie magnifiche. Posso andare a dormire contento, sperando che presto mi possa ricapitare un giorno così.  


18 gen 2017

Dybala come Messi, nel bene e nel male

Tra le cose che Messi ha emulato di Maradona c'è la tendenza a veder nascere suoi eredi a cadenza più o meno regolare.
Basta che siano argentini, mancini (ma non è indispensabile), fisicamente compatti, con il dribbling nel sangue e una tecnica di un certo livello e il paragone sorge spontaneo, esattamente come succedeva con Diego nei decenni precedenti.
Per lo storico 10 del Napoli hanno ricevuto l'investitura, tra gli altri, Aimar, Ortega, D'Alessandro e Buonanotte, fino ad arrivare appunto a Messi. 
Per il 10 del Barcellona personaggi come Defederico, Iturbe e in tempi recenti, forse con qualche motivazione più solida, anche Dybala (poi ci sono tutti quelli nel resto del mondo, ma non divaghiamo).

La base tecnica del paragone Messi-Dybala è indiscutibile.
Oltre alle similitudini fisiche e all'avere il mancino come piede preferito, l'attaccante della Juventus è cresciuto esponenzialmente negli ultimi due anni, unendo un livello tecnico raro a un'ottima capacità di gioco, sia come movimenti, sia a livello di rifinitura, sia nelle conclusioni a rete.
L'approdo in nazionale argentina ha aggiunto un altro mattoncino alla costruzione e la consacrazione definitiva è arrivata con le parole di Bauza: "Dybala può sostituire Messi. Per come è cresciuto può prendere il suo posto". Poco importa che nella partita successiva (con Messi assente) si sia fatto espellere.
Fin qui solo cose positive. Il fatto è che in questa stagione, forse, sta emergendo che il paragone è ancora più profondo, arrivando a toccare la caratteristica di Messi che più fa discutere: la collocazione tattica.

Leo infatti, per quanto straordinario, non è un giocatore così facile da mettere in campo. Tendenzialmente a Barcellona ci sono riusciti, pur con degli anni di intermezzo da prima punta, ma soprattuto nell'Argentina, dunque in un contesto meno "perfetto" e coordinato, l'erede di Maradona è finito a giocare un po' ovunque. Esterno, prima punta, rifinitore, trequartista, l'unica cosa sicura era che al suo talento non si poteva rinunciare. Il percorso però si è rivelato più difficoltoso del previsto e i risultati, altalenanti per non dire deludenti al momento decisivo, hanno finito per alimentare discussioni di ogni genere ad ogni latitudine.
Dybala in questa stagione si trova in una situazione simile a quella che Messi vive con l'Argentina, ed è qui che subentra il lato negativo del paragone.

Il talento di Paulo non è in discussione, ma il suo rendimento ha risentito dei nuovi equilibri della squadra di Allegri. La Joya si è trovato nella condizione di dover modificare il suo modo di giocare, correndo di più, abbassandosi verso i centrocampisti, cucendo il gioco più che puntando la porta. Proprio come Messi in albiceleste. E allo stesso modo i suoi numeri sono crollati (per intenderci Messi col Barcellona ha 326 gol in 363 partite, con l'Argentina 57 in 116), aprendo la discussione sul ruolo: deve giocare più vicino alla porta? Deve fare il trequartista? Non può giocare con X e Y? Viene troppo limitato?
Probabilmente la Juventus deve ancora trovare il modo ideale di collocare Dybala. La squadra di Allegri non è certo cucita attorno a lui, e anzi per certi versi al suo posto starebbe ancora benone uno come Carlitos Tevez, più fisico, più abituato a svariare per il campo.
L'attuale Juventus in un certo senso è ancora la squadra di Conte, col 3-5-2 come modulo di riferimento. Senza però la qualità a centrocampo dei vari Pirlo, Vidal e Pogba la sofferenza di Dybala è evidente, e da seconda punta si trova a correre indietro per cercarsi palloni giocabili. Con la difesa a 4 invece, modulo che Allegri alterna, ma che non ha ancora una dimensione definitiva, da esterno non ha il fisico, da prima punta non può giocare vista la concorrenza e da trequartista appare limitato, troppo lontano dalla porta.
Un dilemma tattico di non così semplice soluzione, anche se Dybala con le sue qualità il modo di fare qualcosa di utile lo troverà sempre.
In futuro troverà una squadra che lo metta al centro e gli permetta di esaltare le sue caratteristiche?