3 feb 2014

Luis Aragonés: il ricordo di Xavi

Sabato 1 febbraio il mondo del calcio è stato scosso dalla notizia della morte di Luis Aragonés, l'Abuelo della Spagna calcistica. Sulle pagine del quotidiano El País il centrocampista del Barça e della Roja Xavi Hernandez ha voluto ricordarlo con delle parole toccanti, che meritano di essere lette e che abbiamo deciso di tradurre (in modo del tutto amatoriale) per chi non conosce lo spagnolo.
 
Per tutti gli altri lasciamo il link all'articolo originale: Míster, nunca fuimos japoneses


Mister, noi non siamo mai stati giapponesi

"Non sei giapponese, quindi capisci quello che ti sto dicendo". Me lo disse una notte. Lo sto guardando in una camera d'albergo e so che mi mancherà. Molto. Perché a Luis Aragonés io volevo molto bene. E con lui ho parlato davvero molto.

Sapevo che non stava bene, ma non avrei mai pensato fosse qualcosa di tanto grave, che se ne sarebbe andato così presto, così veloce, in questo modo. "Sto bene, sto bene", mi rispondeva sempre quando glielo chiedevo. Parlavo spesso con lui, perchè dal giorno in cui lo conobbi per me ha sempre rappresentato un punto di riferimento assoluto. Probabilmente è l'allenatore con cui ho trascorso più tempo a discutere di calcio. Andavo a casa sua e parlavamo per ore, alle volte di stile "quella è la chiave, Xavi, sapere a cosa vogliamo giocare", sempre invece dell'importanza di schierare in campo quelli bravi e sempre di quanto fosse importante non temere nessuno, nessuna squadra, per quanto potesse correre più di noi. "Tu e io sappiamo che il pallone corre più di loro. E che noi siamo capaci di farlo correre meglio di loro", mi disse. I ricordi migliori Luis me li ha lasciati nelle chiacchierate, negli incontri nei corridoi, nelle sue comparse in sala di pranzo, perché ti sapeva trasmette sempre qualcosa. E aveva sempre ragione, sempre.

Luis non guardava in faccia a nessuno; ti seguiva durante l'allenamento, si avvicinava e ti diceva: "Oggi stai cazzeggiando, sei venuto ad allenarti e non si nota. A me non piacciono gli scansafatiche!". E se ne andava. Luis non mentiva mai, era diretto. "Tu non giochi, perché hai fatto pena questa settimana", "Cos'hai? Sei stanco?", "Oggi sei stato fantastico, questa settimana spacchi tutto". "Pensi che sia qui a perdere tempo, che sono una mezzasega?". Questo era il vero Luis, da vicino.

L'altro giorno mi è tornato alla mente un aneddoto relativo alla prima volta in cui mi convocò in nazionale. Non mi aveva chiamato la volta precedente e in settembre, al momento della diramazione della lista, stavo aspettando. "Cosa pensavi? Che quel vecchio figlio di puttana non ti avrebbe chiamato, eh?". E io, spaventato a morte, gli dissi: "No no, non ho mai pensato qualcosa di simile, mister". E lui, da vero Luis, mi rispose: "Sì sì, certo. A me la vai a raccontare. Vieni, e parleremo". Parlammo, quel giorno e altre mille volte.

Luis è stato fondamentale nella mia carriera e nella storia della Roja. Senza di lui niente sarebbe stato lo stesso, questo è certo. Con lui tutto ebbe inizio, perché mise assieme i piccoletti, Iniesta, Cazorla, Cesc, Silva, Villa... Con Luis iniziò una rivoluzione, sostituimmo la fisicità con il pallone e dimostrammo a tutto il mondo che era possibile vincere giocando bene. Se non avessimo vinto l'Europeo, non avremmo vinto il Mondiale, anche se in questo caso fu altrettanto importante l'arrivo di Del Bosque, un altro fenomeno.

Luis è stato spesso messo alla gogna, però è stato colui che ci ha indicato il cammino, che ha regalato alla Spagna lo stile di gioco di cui ora può vantarsi. Su questo aspetto l'abbiamo sempre pensata allo stesso modo. È stato Luis a intravedere le potenzialità e puntare sui piccoletti. "Non mi importa del fisico, metto quelli bravi, perché sono talmente bravi che vinceremo l'Europeo". E lo vincemmo. Fu una mossa tanto intelligente quanto coraggiosa.

Personalmente, Luis mi ha fatto sentire importante anche quando la mia autostima era disastrosa. Mi ha dato il comando della nazionale, quando non lo avevo neanche nel Barça. "Qui comandi tu", mi disse, "e se vogliono, che critichino me". Decisi di ripagare quella fiducia sul campo. È merito suo se venni nominato miglior giocatore dell'Europeo, anche se lui lo ha sempre negato. Con me ha avuto un legame indimenticabile. In Germania non arrivai al massimo della condizione fisica, ma lui mi aspettò. Veniva a trovarmi a Barcellona, preoccupato per il mio ginocchio. Paredes -il suo preparatore fisico- venne fino a La Mola a seguire il mio recupero dall'infortunio... Luis mi chiamava in continuazione. "Stringi i denti Xavi, e datti una mossa che ti sto aspettando".

Nel dizionario dovrebbe esserci una sua foto a fianco alla parola "calcio". Luis è il calcio fatto uomo.

Addio, mister. Grazie di tutto. E sia chiaro: né io né lei siamo mai stati giapponesi.
 
Xavi Hernandez

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