Sono trascorsi soltanto quattordici mesi, ma l’impressione è che sia passata un’eternità dall’impetuoso avvento di Marcelo Gallardo al River Plate. Un arrivo passato in sordina, tra ironie, dubbi e tanta perplessità per la scelta presa dalla società, rea agli occhi dei tifosi di non aver fatto nulla per trattenere Ramon Diaz, fresco vincitore dell’ennesimo titolo con i Millonarios. Pur essendo uno dei giocatori più rappresentativi della Banda negli ultimi vent’anni, il Muñeco si è dunque ritrovato su una delle panchine più bollenti del Sudamerica con un intero popolo ad avanzare critiche già prima dell’ufficialità.
Può sembrare strano, ma soltanto se non si è pratici di Nuñez e dintorni, posti in cui Ramon - che dalla propria valigetta può estrarre la bellezza di nove titoli con il River Plate, tra i quali sei campionati e una Copa Libertadores - è considerato assieme ad Angelito Labruna uno dei pochi grandi idoli del club. Un eroe del futbol, un portabandiera del riverplatismo più sfrenato e incondizionato, una delle figure da pregare prima di andare a letto e da salutare appena svegli di primo mattino. L’idolo in Argentina non è il campione che fa innamorare i bambini, è l’incarnazione del club in un giocatore, in un allenatore; è il punto di riferimento della passione, è la forma umana dell’amore che un tifoso può provare per la propria squadra, è la bandiera che ognuno segue sempre e comunque. Non c’è una regola per individuare le credenziali per poter essere considerato un idolo, lo si diventa e basta. Labruna è un idolo, Francescoli è un idolo, il Beto Alonso è un idolo e Ramon è un idolo.
Questa lunga premessa è doverosa per capire cosa significhi ritrovarsi sulla stessa panchina dell’attuale tecnico del Paraguay, con una squadra spremuta all’inverosimile, senza i partenti Ledesma, Carbonero e Lanzini, cardini di quel River, con diversi giocatori inutili rientranti da prestiti e con un’inevitabile rivoluzione tecnica alle porte. Il curriculum di Gallardo? Dodici mesi da allenatore del Nacional di Montevideo, un titolo di campione d’Uruguay e la benedizione di Enzo Francescoli. Abbastanza? Non per molti.
Ma al Muñeco è bastato davvero poco per rivoluzionare l’ambiente, la squadra e la società. Presentatosi senza particolari proclami, Gallardo in tempi sorprendenti ha saputo imporre la propria figura dentro e fuori dal terreno di gioco, ricucendo gli squarci lasciati da Ramon Diaz, portando una ventata di aria fresca sul piano tattico e nei rapporti tra staff tecnico e società. Astuzia, chiarezza e coerenza hanno permesso al tecnico di Merlo di ottenere la fiducia incondizionata da parte di D’Onofrio e Francescoli, fiducia costantemente ripagata sul terreno di gioco.
Se l’avvento di un allenatore ben lontano dai canoni tradizionali albicelesti era inaspettato, vedere la preparazione e l’evoluzione di Gallardo per quanto riguarda l’aspetto gestionale è stato sorprendente. A soli 39 anni il Muñeco è il primo vero manager europeo visto in Argentina e forse in tutto il Sudamerica, un allenatore in grado di farsi coinvolgere nella gestione della squadra a 360°, capace non solo di schierare in campo i propri giocatori, ma anche di tessere la tela delle proprie idee nei corridoi del Monumental, ottenendo una chiarezza e un’unità d’intenti difficile da incontrare nella maggior parte dei club del Vecchio Continente e lontana anni luce dal caos che avvolge le squadre argentine.
Il vero successo dell’ex-numero 10 della Banda è però rappresentato dalla facilità e dalla naturalezza con cui ha saputo riscrivere i canoni di gioco del River di Ramon Diaz. Ereditare una squadra di carattere e soprattutto vincente per cambiarne volto non è impresa facile, ma sono bastate poche, pochissime partite per vedere un impianto di gioco completamente rivoluzionato, con interpreti vecchi, nuovi e riciclati.
Mantenendo lo stesso assetto del predecessore, Gallardo ha instillato nei propri giocatori la feroce volontà di dominare il gioco e le partite, trovando in elementi quali Kranevitter, Sanchez, Mora e Pisculichi gli interpreti perfetti per abbinare qualità e intensità, mantenendo un’attenzione maniacale al pressing e al recupero veloce del pallone. Il primo River del Muñeco si è rivelata una splendida macchina da futbol, una squadra offensiva predisposta alla perfezione per soffocare il gioco avversario e ripartire con splendide azioni corali, dettate dall’estro di straordinari talenti come Teofilo Gutierrez.
Non a caso il primo semestre ha portato al club di Nuñez una storica Copa Sudamericana, condita dalla ciliegina del trionfo in semifinale contro i rivali del Boca, un secondo posto alle spalle del Racing di Milito nel Torneo di Transicion e la doppia vittoria nel Clasico contro il San Lorenzo in occasione della Recopa Sudamericana.
Se il secondo semestre doveva invece essere la prova decisiva per valutare l’abilità di Gallardo, il Muñeco ha superato l’esame a pieni voti e con lode. Perché durante la cavalcata che ha portato a una storica finale di Libertadores, l’ex-allenatore del Nacional di Montevideo ha messo in mostra un altro volto del proprio modo di interpretare il ruolo. Pur mantenendo un’idea di gioco impostata su possesso palla e pressing, ha dimostrato di essere un finissimo stratega, capace tanto di preparare quanto di leggere le partite, sapendo variare uomini e moduli con facilità quasi sorprendente. Lo stesso River, capace di schierare contemporaneamente quattro punte, ha saputo giocare partite d’attesa con ripartenze fulminee e blitz offensivi letali, mostrando una padronanza, una tranquillità e un controllo del proprio gioco a tratti disarmante.
Ma l’ode a Marcelo Gallardo non è finita qui, perché Napoleón - soprannome che sta oramai soppiantando quello di “Muñeco” - finora non ha sbagliato mezzo colpo di mercato. Tutti i giocatori richiesti espressamente da lui hanno avuto un impatto immediato sulla squadra, da Pisculichi al Pity Martinez, da Viudez ad Alario, sapendo calarsi con naturalezza assoluta in un nuovo impianto di gioco, nonostante eredità pesanti come ad esempio quella di Teofilo Gutierrez.
A distruggere qualsiasi dubbio sulla capacità del tecnico di valutare un giocatore, è sufficiente pensare alla fiducia data a reietti come Mora e Sanchez, allontanati dal Monumental dopo annate incolori e ben presto tornati a essere eroi e simboli di una nuova era.
Di pari passo il Muñeco ha dimostrato intelligenza e sensibilità nella gestione degli innumerevoli talenti prodotti dalle Inferiores. Quando il materiale a disposizione è di primissima qualità tutto diventa più facile, ma la sicurezza e la fiducia data ai vari Kranevitter, Mammana, Driussi, Guido Rodriguez, Boye o Vega è inattaccabile per i tempi, per il controllo sulla pressione e per le soluzioni tattiche trovate. Emblematico è il caso di Driussi, annunciato come fenomeno e costretto fin da subito a dimostrare ben più del necessario: Gallardo gli ha dato lentamente minuti, senza chiedergli di essere il salvatore della patria e senza esporlo eccessivamente al critico pubblico del Monumental. A inizio 2015 Driussi ha trovato la sua collocazione ideale partendo dalla fascia sinistra, iniziando un percorso di crescita che, salvo possibili sorprese, lo porterà a diventare uno dei cardini del River dei prossimi mesi, grazie a doti tecniche sopra alla media e alla capacità di muoversi per il campo come un giocatore vero.
Gallardo si candida dunque a essere uno degli allenatori più interessanti a livello mondiale, il meglio che in questo momento può offrire il Sudamerica assieme al DT del Cile Jorge Sampaoli.
Finora nessun giocatore si è schierato contro di lui e trovare critiche alla gestione dello spogliatoio è impresa ardua, a dimostrazione che oltre a essere un ottimo stratega e un manager a tutto tondo, il Muñeco è anche un grande leader carismato e un vero condottiero: Napoleón, mica per caso.
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