Tralasciando il discorso tecnico, la carriera di Ricky Alvarez fino a oggi presenta un'anomalia più unica che rara.
Essendo nato a Benos Aires nel 1988, a quasi 25 anni dovrebbe ormai essere nel pieno della maturità tecnico/tattica.
Al contrario di molti suoi coetanei però Ricky ha giocato veramente poco in carriera.
Le statistiche parlano di una cinquantina di presenze nel Velez, a cui si sommano le circa trenta nell'Inter.
Di fatto ha visto il campo solo nelle ultime due stagioni e mezzo.
Nemmeno 100 presenze ufficiali da professionista, una carriera ancora giovanissima.
30 ott 2012
29 ott 2012
Il ritorno del Superclasico
La partita delle partite è finalmente tornata in Argentina dopo un anno di stop forzato a causa del noto decadimento del River di ormai due stagioni fa. Tutti gli spettatori neutrali aspettavano con malcelata impazienza il ritorno del superclasico, partita unica e affascinante.
Probabilmente ne avrebbero fatto a meno le due squadre protagoniste visto il delicato momento in cui entrambe si trovavano. Il Boca con la rinuncia a Riquelme ha perso la sua anima e vaga alla ricerca di un'identità, pagando nei risultati. Il River di Almeyda principalmente lotta, conta sugli spunti individuali, vivendo un pò alla giornata, entrando ciclicamente in qualche crisi. Un derby tra nobili al momento decadute, che poteva significare rilancio o certificazione dei problemi.
Il risultato è stato interlocutorio.
River Plate - Boca Juniors 2-2 (2' Ponzio, 70'Mora; 75' Silva, 91' Erviti)
Partita vera, nervosa, decisamente argentina. Poco gioco, molto disordine.
Ai punti avrebbero meritato i padroni di casa. Più pericolosi, più incisivi, forse anche con più voglia di dimostrare qualcosa, e con la fortuna di andare in vantaggio subito su un errore grave quanto inaspettato del portiere avversario. Con un Trezeguet in condizioni appena presentabili, gli uomini guida della banda sono stati Leonardo Ponzio, Carlos Sanchez e Rodrigo Mora. Il primo è da sempre l'estensione sul campo del Pelado Almeyda, ha sbloccato la partita ed è stato l'unico a cercare un'idea di gioco dei 22 in campo. Il numero 8 si è caricato sulle spalle la squadra nel secondo tempo colmando da solo le enormi distanze tra i reparti, trovando anche l'ottimo assist per il gol del raddoppio. L'attaccante uruguaiano è stata invece scelta precisa dell'allenatore, che ha ripagato con una prestazione di infinita sostanza (leggi: garra charrua) condita da giocate di qualità come il gol del 2-0 che avrebbe dovuto chiudere i giochi. I numeri dicono che è un attaccante serio, probabilmente un sottovalutato pronto a esplodere.
Il River ha pagato nel finale una certa fragilità psicologica figlia di troppi risultati negativi del recente passato. Due gol sostanzialmente regalati dovuti anche all'inesperienza di alcuni interpreti della difesa. Una beffa decisamente amara.
Il Boca, dicevamo, è una squadra senz'anima.
Falcioni regolarmente rivolta la sua formazione, sia come modulo di partenza sia sfruttando i cambi, ma la risposta del campo è sempre la stessa. Tanta, troppa confusione, poche idee, nessuna identità. Soprattutto in fase offensiva manca qualcuno che prenda le redini della situazione, e in questo senso la grossa delusione è Lucas Viatri, sempre più corpo estraneo. In un contesto simile anche ottimi talenti come Paredes e Sanchez Mino faticano a mettersi in mostra.
L'unica certezza è la garra di Tanque Silva. Non a caso segna lui il rigore che riapre la partita e fa la sponda per l'inserimento di Erviti che vale il 2-2 a tempo scaduto. Il Mago è stato praticamente assente per 90 minuti, salvo poi presentarsi in area al momento decisivo. Il suo mentore Falcioni ringrazia, potrebbe avergli salvato la panchina.
Carattere da squadra esperta, singoli potenzialmente decisivi, ma in generale troppo poco. Non solo manca un'idea di gioco, non c'è nemmeno un modulo con dei punti di riferimento. Sembra di essere tornati alla grande crisi che ha preceduto l'era Falcioni. E a breve, dopo Palermo e Riquelme, si ritirerà anche il Flaco Schiavi...
Probabilmente ne avrebbero fatto a meno le due squadre protagoniste visto il delicato momento in cui entrambe si trovavano. Il Boca con la rinuncia a Riquelme ha perso la sua anima e vaga alla ricerca di un'identità, pagando nei risultati. Il River di Almeyda principalmente lotta, conta sugli spunti individuali, vivendo un pò alla giornata, entrando ciclicamente in qualche crisi. Un derby tra nobili al momento decadute, che poteva significare rilancio o certificazione dei problemi.
Il risultato è stato interlocutorio.
River Plate - Boca Juniors 2-2 (2' Ponzio, 70'Mora; 75' Silva, 91' Erviti)
Partita vera, nervosa, decisamente argentina. Poco gioco, molto disordine.
Ai punti avrebbero meritato i padroni di casa. Più pericolosi, più incisivi, forse anche con più voglia di dimostrare qualcosa, e con la fortuna di andare in vantaggio subito su un errore grave quanto inaspettato del portiere avversario. Con un Trezeguet in condizioni appena presentabili, gli uomini guida della banda sono stati Leonardo Ponzio, Carlos Sanchez e Rodrigo Mora. Il primo è da sempre l'estensione sul campo del Pelado Almeyda, ha sbloccato la partita ed è stato l'unico a cercare un'idea di gioco dei 22 in campo. Il numero 8 si è caricato sulle spalle la squadra nel secondo tempo colmando da solo le enormi distanze tra i reparti, trovando anche l'ottimo assist per il gol del raddoppio. L'attaccante uruguaiano è stata invece scelta precisa dell'allenatore, che ha ripagato con una prestazione di infinita sostanza (leggi: garra charrua) condita da giocate di qualità come il gol del 2-0 che avrebbe dovuto chiudere i giochi. I numeri dicono che è un attaccante serio, probabilmente un sottovalutato pronto a esplodere.
Il River ha pagato nel finale una certa fragilità psicologica figlia di troppi risultati negativi del recente passato. Due gol sostanzialmente regalati dovuti anche all'inesperienza di alcuni interpreti della difesa. Una beffa decisamente amara.
Il Boca, dicevamo, è una squadra senz'anima.
Falcioni regolarmente rivolta la sua formazione, sia come modulo di partenza sia sfruttando i cambi, ma la risposta del campo è sempre la stessa. Tanta, troppa confusione, poche idee, nessuna identità. Soprattutto in fase offensiva manca qualcuno che prenda le redini della situazione, e in questo senso la grossa delusione è Lucas Viatri, sempre più corpo estraneo. In un contesto simile anche ottimi talenti come Paredes e Sanchez Mino faticano a mettersi in mostra.
L'unica certezza è la garra di Tanque Silva. Non a caso segna lui il rigore che riapre la partita e fa la sponda per l'inserimento di Erviti che vale il 2-2 a tempo scaduto. Il Mago è stato praticamente assente per 90 minuti, salvo poi presentarsi in area al momento decisivo. Il suo mentore Falcioni ringrazia, potrebbe avergli salvato la panchina.
Carattere da squadra esperta, singoli potenzialmente decisivi, ma in generale troppo poco. Non solo manca un'idea di gioco, non c'è nemmeno un modulo con dei punti di riferimento. Sembra di essere tornati alla grande crisi che ha preceduto l'era Falcioni. E a breve, dopo Palermo e Riquelme, si ritirerà anche il Flaco Schiavi...
18 ott 2012
La crisi di Tabarez
L'Uruguay del maestro Tabarez è stata la migliore realtà del calcio sudamericano degli ultimi anni. Esplosa a sorpresa nel Mondiale 2010 ha trovato nella Copa America 2011 la sua consacrazione attraverso una vittoria temporalmente molto attesa.
Da quel preciso momento, però, qualcosa è cambiato.
I semi della situazione attuale si trovano proprio all'inizio di quella trionfale Copa, che l'Uruguay ha vinto con una certa sofferenza nella prima fase. Il risultato, anche per l'eliminazione della favorita Argentina, ha cancellato tutte le difficoltà emerse, facendo forse sopravvalutare la condizione della celeste per il presente e l'immediato futuro a tutti, ma soprattutto al suo allenatore.
La crisi dell'Uruguay, iniziata con la delusione olimpica e proseguita con 3 sconfitte e 1 pareggio nelle ultime 4 partite di qualificazione ai Mondiali con 2 gol fatti e 11 subiti, nasce da motivazioni tattiche e scelte di uomini totalmente ascrivibili a Oscar Washington Tabarez.
Cominciando dagli uomini è evidente che il Mondiale 2010 segni in modo indelebile le scelte del ct nell'ossatura della squadra.
Diego Forlan è l'uomo di fiducia, il leader designato attorno a cui la formazione è costruita. La sua imposta titolarità è un peso per la squadra perchè la condiziona. Tabarez vede in lui il suo 10, l'organizzatore totale del gioco offensivo, perchè proprio su questo ha costruito i suoi successi. Peccato che del Pallone d'Oro del Mondiale sia rimasto giusto il ricordo per un declino fisico e tecnico che pare inarrestabile.
Questa scelta ha due conseguenze:
- i centrocampisti sono esclusivamente uomini di rottura col solo compito di appoggiare il pallone a Forlan. Se lui non riesce più a dare una regia alla squadra, tutto il gioco si blocca. I giocatori con più qualità (Lodeiro, Gaston Ramirez) sono seconde scelte schierate spesso per recuperare e sempre limitati da compiti difensivi.
- gli uomini offensivi corrono, letteralmente, attorno e per Forlan. Se Luis Suarez, a suon di gol, è riuscito a ritagliarsi un suo spazio, il vero sacrificato è Edinson Cavani. Il suo status di bomber internazionale fa si che il ct lo schieri spesso titolare, ma per "colpa" delle sue qualità atletiche e della sua propensione al sacrificio Tabarez lo dirotta regolarmente (vale a dire anche quando non gioca Forlan) in ruoli di fatica.
In un contesto molto confusionario (continua alternanza di nomi, formazioni iper difensiviste e iper offensive schierate non solo a distanza di pochi giorni, ma anche all'interno della stessa partita) lascia particolarmente perplessi la gestione di due talenti che rappresentano il futuro della celeste, Cavani e Gaston Ramirez.
Il numero 7 del Napoli viene schierato con costanza come esterno di centrocampo vero, chiamato a coprire tutta la fascia. Dire che è sacrificato vedendolo chiudere diagonali difensive nella sua area di rigore è poco.
L'ex numero 10 del Bologna viene schierato in ruoli sempre diversi (e tendenzialmente assurdi), con compiti spesso in antitesi con le sue caratteristiche. Si intuisce che Tabarez voglia puntare su di lui per età e talento, ma il maestro non sembra proprio in grado di sposare la necessità di lanciare un giovane con le sue esigenze.
Le scelte tattiche sono, per prima cosa, un riflesso delle scelte operate sui nomi.
L'idea originale era un 4-3-1-2 che durante la Copa America si è trasformato in 4-4-2 in linea ufficialmente a causa dell'infortunio di Cavani, in sostanza per permettere al solito biondo numero 10 di giocare qualche metro più avanti. Da trequartista non riusciva più a garantire l'intensità necessaria. Alvaro Gonzalez a destra e Alvaro Pereira a sinistra fornivano tutta la corsa e la fisicità che serviva a coprire il campo, Martin Caceres nell'inedito ruolo di terzino sinistro permetteva di schierare una difesa a 3 mascherata che limitava di molto i rischi.
Una soluzione contingente su cui Tabarez ha lavorato prima provando all'Olimpiade una difesa a 3 fissa per liberare offensivamente i suoi centrocampisti più "leggeri" e tecnici, poi in mancanza di risultati virando nuovamente su un 4-4-2 in linea per la nazionale maggiore. Alla luce delle ultime prestazioni, un modulo che non garantisce solidità nè permette di sfruttare il talento dei giocatori offensivi.
L'Uruguay è al momento prigioniero del suo recente e luminoso passato.
La soluzione più immediata quanto drastica sarebbe la rinuncia al totem Forlan, che avrebbe come conseguenza un naturale ri-assestamento di tutta la formazione.
Tabarez avrà il coraggio di farlo da qui al 2014?
Da quel preciso momento, però, qualcosa è cambiato.
I semi della situazione attuale si trovano proprio all'inizio di quella trionfale Copa, che l'Uruguay ha vinto con una certa sofferenza nella prima fase. Il risultato, anche per l'eliminazione della favorita Argentina, ha cancellato tutte le difficoltà emerse, facendo forse sopravvalutare la condizione della celeste per il presente e l'immediato futuro a tutti, ma soprattutto al suo allenatore.
La crisi dell'Uruguay, iniziata con la delusione olimpica e proseguita con 3 sconfitte e 1 pareggio nelle ultime 4 partite di qualificazione ai Mondiali con 2 gol fatti e 11 subiti, nasce da motivazioni tattiche e scelte di uomini totalmente ascrivibili a Oscar Washington Tabarez.
Cominciando dagli uomini è evidente che il Mondiale 2010 segni in modo indelebile le scelte del ct nell'ossatura della squadra.
Diego Forlan è l'uomo di fiducia, il leader designato attorno a cui la formazione è costruita. La sua imposta titolarità è un peso per la squadra perchè la condiziona. Tabarez vede in lui il suo 10, l'organizzatore totale del gioco offensivo, perchè proprio su questo ha costruito i suoi successi. Peccato che del Pallone d'Oro del Mondiale sia rimasto giusto il ricordo per un declino fisico e tecnico che pare inarrestabile.
Questa scelta ha due conseguenze:
- i centrocampisti sono esclusivamente uomini di rottura col solo compito di appoggiare il pallone a Forlan. Se lui non riesce più a dare una regia alla squadra, tutto il gioco si blocca. I giocatori con più qualità (Lodeiro, Gaston Ramirez) sono seconde scelte schierate spesso per recuperare e sempre limitati da compiti difensivi.
- gli uomini offensivi corrono, letteralmente, attorno e per Forlan. Se Luis Suarez, a suon di gol, è riuscito a ritagliarsi un suo spazio, il vero sacrificato è Edinson Cavani. Il suo status di bomber internazionale fa si che il ct lo schieri spesso titolare, ma per "colpa" delle sue qualità atletiche e della sua propensione al sacrificio Tabarez lo dirotta regolarmente (vale a dire anche quando non gioca Forlan) in ruoli di fatica.
In un contesto molto confusionario (continua alternanza di nomi, formazioni iper difensiviste e iper offensive schierate non solo a distanza di pochi giorni, ma anche all'interno della stessa partita) lascia particolarmente perplessi la gestione di due talenti che rappresentano il futuro della celeste, Cavani e Gaston Ramirez.
Il numero 7 del Napoli viene schierato con costanza come esterno di centrocampo vero, chiamato a coprire tutta la fascia. Dire che è sacrificato vedendolo chiudere diagonali difensive nella sua area di rigore è poco.
L'ex numero 10 del Bologna viene schierato in ruoli sempre diversi (e tendenzialmente assurdi), con compiti spesso in antitesi con le sue caratteristiche. Si intuisce che Tabarez voglia puntare su di lui per età e talento, ma il maestro non sembra proprio in grado di sposare la necessità di lanciare un giovane con le sue esigenze.
Le scelte tattiche sono, per prima cosa, un riflesso delle scelte operate sui nomi.
L'idea originale era un 4-3-1-2 che durante la Copa America si è trasformato in 4-4-2 in linea ufficialmente a causa dell'infortunio di Cavani, in sostanza per permettere al solito biondo numero 10 di giocare qualche metro più avanti. Da trequartista non riusciva più a garantire l'intensità necessaria. Alvaro Gonzalez a destra e Alvaro Pereira a sinistra fornivano tutta la corsa e la fisicità che serviva a coprire il campo, Martin Caceres nell'inedito ruolo di terzino sinistro permetteva di schierare una difesa a 3 mascherata che limitava di molto i rischi.
Una soluzione contingente su cui Tabarez ha lavorato prima provando all'Olimpiade una difesa a 3 fissa per liberare offensivamente i suoi centrocampisti più "leggeri" e tecnici, poi in mancanza di risultati virando nuovamente su un 4-4-2 in linea per la nazionale maggiore. Alla luce delle ultime prestazioni, un modulo che non garantisce solidità nè permette di sfruttare il talento dei giocatori offensivi.
L'Uruguay è al momento prigioniero del suo recente e luminoso passato.
La soluzione più immediata quanto drastica sarebbe la rinuncia al totem Forlan, che avrebbe come conseguenza un naturale ri-assestamento di tutta la formazione.
Tabarez avrà il coraggio di farlo da qui al 2014?
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11 ott 2012
Prandelli perchè? parte seconda
Da quando il Pallone d'Oro si è fuso col Fifa World Player il prestigioso riconoscimento viene assegnato anche gli allenatori. I vincitori ad oggi sono stati nel 2010 Mourinho e nel 2011 Guardiola.
Nell'edizione 2012 tra i candidati ci sono anche sei allenatori italiani: Di Matteo, Mancini, Spalletti, Mazzarri, Guidolin e Prandelli.
I primi tre sono chiaramente in lista per le loro vittorie, Mazzarri e Guidolin per i risultati ottenuti con squadre non di primissimo piano.
Stupisce la presenza di Prandelli. O meglio, stupisce in funzione dell'assenza di Antonio Conte.
Per cominciare Conte ha portato la Juventus da un ottavo posto a vincere il campionato senza sconfitte. Per quanto la qualità della Serie A sia calata, è sempre di più che dominare con record un girone di qualificazione contro Serbia, Estonia (arrivata seconda, a conferma), Slovenia, Irlanda del Nord e Isole Fær Øer.
Prandelli ha avuto il merito di portare l'Italia a una finale europea inaspettata (anche drammaticamente persa, ma è un altro discorso). Alla base di quel risultato c'è però il lavoro di Conte. Innanzi tutto negli uomini. Buffon è il capitano sia dell'Italia che della Juventus. La difesa di entrambe le squadre è costruita sulle capacità di Barzagli, col supporto di Bonucci. Pirlo non sarebbe mai stato il faro di Prandelli senza la cura Conte che lo ha totalmente rigenerato e Marchisio è il suo complemento ideale. Persino Giaccherini, elemento totalmente periferico alla Juve, trova in nazionale impiego costante.
Ancora più evidente è la dipendenza tattica. Se il ct ha potuto inventarsi di punto in bianco una difesa a tre all'esordio contro la Spagna è solo grazie al lavoro tattico dell'allenatore di Lecce, che in un anno ha portato la sua squadra dal 4-4-2 al 4-3-3 al 3-5-2. I giocatori già sapevano cosa fare, Prandelli ha solo attinto dal lavoro altrui.
Magari Conte non meritava di entrare nella lista. Ma il suo emulo ecumenico ed eticamente corretto ancora meno.
Nell'edizione 2012 tra i candidati ci sono anche sei allenatori italiani: Di Matteo, Mancini, Spalletti, Mazzarri, Guidolin e Prandelli.
I primi tre sono chiaramente in lista per le loro vittorie, Mazzarri e Guidolin per i risultati ottenuti con squadre non di primissimo piano.
Stupisce la presenza di Prandelli. O meglio, stupisce in funzione dell'assenza di Antonio Conte.
Per cominciare Conte ha portato la Juventus da un ottavo posto a vincere il campionato senza sconfitte. Per quanto la qualità della Serie A sia calata, è sempre di più che dominare con record un girone di qualificazione contro Serbia, Estonia (arrivata seconda, a conferma), Slovenia, Irlanda del Nord e Isole Fær Øer.
Prandelli ha avuto il merito di portare l'Italia a una finale europea inaspettata (anche drammaticamente persa, ma è un altro discorso). Alla base di quel risultato c'è però il lavoro di Conte. Innanzi tutto negli uomini. Buffon è il capitano sia dell'Italia che della Juventus. La difesa di entrambe le squadre è costruita sulle capacità di Barzagli, col supporto di Bonucci. Pirlo non sarebbe mai stato il faro di Prandelli senza la cura Conte che lo ha totalmente rigenerato e Marchisio è il suo complemento ideale. Persino Giaccherini, elemento totalmente periferico alla Juve, trova in nazionale impiego costante.
Ancora più evidente è la dipendenza tattica. Se il ct ha potuto inventarsi di punto in bianco una difesa a tre all'esordio contro la Spagna è solo grazie al lavoro tattico dell'allenatore di Lecce, che in un anno ha portato la sua squadra dal 4-4-2 al 4-3-3 al 3-5-2. I giocatori già sapevano cosa fare, Prandelli ha solo attinto dal lavoro altrui.
Magari Conte non meritava di entrare nella lista. Ma il suo emulo ecumenico ed eticamente corretto ancora meno.
9 ott 2012
Questione di stadi
L'acquisto della Roma da parte degli americani ha portato molte novità a tutti i livelli della società.
Soprattutto un'idea di buisness chiara e strutturata, che punta a ottenere risultati economici importanti sulla base delle più moderne strategie di marketing. Idee tante, tempo da perdere poco.
Non a caso James Pallotta ogni tanto ribadisce la volontà di costruire un nuovo stadio di proprietà, santo graal assoluto del calcio di oggi, soprattutto per le società italiane.
Contemporaneamente l'istrionico Claudio Lotito va da anni parlando di un suo progetto per uno stadio tutto della Lazio, che diventi un punto di riferimento per i tifosi e soliti ammennicoli.
Desideri più che giustificati per le due squadre di Roma, specie in epoca di fairplay finanziario, legge sugli stadi permettendo.
Ma Roma non rischia di trasformarsi in una città di stadi in disuso?
Già oggi vi si trovano due strutture di una certa rilevanza.
Il Flaminio è famoso per essere la casa del rugby, ma per lavori di ristrutturazione che dovevano essere già finiti e invece non ancora iniziati oggi è praticamente una cattedrale nel deserto. In aggiunta il Rugby Roma è praticamente scomparsa come squadra. Uno stadio da 30.000 posti in un'area da riqualificare, quindi senza alcun appeal, a cosa può servire?
L'Olimpico è ovviamente la casa (in affitto, essendo struttura di proprietà del CONI) di Roma e Lazio, oltre che momentaneamente del rugby vista la non disponibilità dell'impianto precedentemente citato. Uno stadio decisamente molto sfruttato, ma che diventerebbe di fatto inutile senza il calcio. L'impegno del rugby per il 6 Nazioni, ammesso rimanga in futuro, è infatti minimo (un paio di partite all'anno) e non si vedono altri eventi legati al CONI che possano giustificare una struttura a 70.000 posti, escludendo la finale di Coppa Italia (una partita).
Se i progetti di Lazio e Roma si concretizzassero, la città si troverebbe a ospitare ben quattro stadi di capienza significativa. Decisamente troppi.
Soprattutto un'idea di buisness chiara e strutturata, che punta a ottenere risultati economici importanti sulla base delle più moderne strategie di marketing. Idee tante, tempo da perdere poco.
Non a caso James Pallotta ogni tanto ribadisce la volontà di costruire un nuovo stadio di proprietà, santo graal assoluto del calcio di oggi, soprattutto per le società italiane.
Contemporaneamente l'istrionico Claudio Lotito va da anni parlando di un suo progetto per uno stadio tutto della Lazio, che diventi un punto di riferimento per i tifosi e soliti ammennicoli.
Desideri più che giustificati per le due squadre di Roma, specie in epoca di fairplay finanziario, legge sugli stadi permettendo.
Ma Roma non rischia di trasformarsi in una città di stadi in disuso?
Già oggi vi si trovano due strutture di una certa rilevanza.
Il Flaminio è famoso per essere la casa del rugby, ma per lavori di ristrutturazione che dovevano essere già finiti e invece non ancora iniziati oggi è praticamente una cattedrale nel deserto. In aggiunta il Rugby Roma è praticamente scomparsa come squadra. Uno stadio da 30.000 posti in un'area da riqualificare, quindi senza alcun appeal, a cosa può servire?
L'Olimpico è ovviamente la casa (in affitto, essendo struttura di proprietà del CONI) di Roma e Lazio, oltre che momentaneamente del rugby vista la non disponibilità dell'impianto precedentemente citato. Uno stadio decisamente molto sfruttato, ma che diventerebbe di fatto inutile senza il calcio. L'impegno del rugby per il 6 Nazioni, ammesso rimanga in futuro, è infatti minimo (un paio di partite all'anno) e non si vedono altri eventi legati al CONI che possano giustificare una struttura a 70.000 posti, escludendo la finale di Coppa Italia (una partita).
Se i progetti di Lazio e Roma si concretizzassero, la città si troverebbe a ospitare ben quattro stadi di capienza significativa. Decisamente troppi.
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1 ott 2012
Nuovi re
Si diceva a queste coordinate dell'importanza dell'imprimatur di Totti sul nuovo progetto Roma, che fa tanto rima con Zeman. Il capitano giallorosso sta effettivamente dando tutto quello che ha sul campo, giocando da esterno sinistro, sacrificandosi anche per quanto può, mettendo a referto al solito gol e assist. La Roma però fa decisamente fatica a ingranare e ottenere risultati.
La benedizione del suo 10 si pensava (o almeno, io lo pensavo) fosse abbastanza per concedere all'allenatore boemo un pò di credito nei momenti di difficoltà. Dopo la dolorosissima, per risultato e svolgimento, sconfitta con la Juventus a sorpresa si è alzata dal coro una nuova voce a contestare l'allenatore e l'andamento della squadra.
Daniele De Rossi, capitan futuro, il figlio prediletto di Roma appunto dopo Totti, ha parlato molto chiaramente. Non gli vanno bene i risultati, non gli va a genio di dover cambiare ruolo e correre per uno sconosciuto greco scelto da Zeman (Panagiotis Tachtsidis), non gli va bene che dopo una preparazione massacrante il lavoro non dia nessun frutto.
In breve, contesta Zeman e tutto il nuovo progetto Roma.
Ricordiamo che De Rossi è di fatto l'unico giocatore di spessore internazionale rimasto alla squadra della capitale. I suoi dirigenti lo sanno bene, e lo hanno pagato sulla loro pelle coi suoi capricci per il recente rinnovo a cifre da Roma dei Sensi.
Il giocatore sa di essere un lusso per la sua squadra. La novità è che scelga di farlo pesare.
Daniele De Rossi, di fatto, si è elevato al rango di nuovo re.
La benedizione del suo 10 si pensava (o almeno, io lo pensavo) fosse abbastanza per concedere all'allenatore boemo un pò di credito nei momenti di difficoltà. Dopo la dolorosissima, per risultato e svolgimento, sconfitta con la Juventus a sorpresa si è alzata dal coro una nuova voce a contestare l'allenatore e l'andamento della squadra.
Daniele De Rossi, capitan futuro, il figlio prediletto di Roma appunto dopo Totti, ha parlato molto chiaramente. Non gli vanno bene i risultati, non gli va a genio di dover cambiare ruolo e correre per uno sconosciuto greco scelto da Zeman (Panagiotis Tachtsidis), non gli va bene che dopo una preparazione massacrante il lavoro non dia nessun frutto.
In breve, contesta Zeman e tutto il nuovo progetto Roma.
Ricordiamo che De Rossi è di fatto l'unico giocatore di spessore internazionale rimasto alla squadra della capitale. I suoi dirigenti lo sanno bene, e lo hanno pagato sulla loro pelle coi suoi capricci per il recente rinnovo a cifre da Roma dei Sensi.
Il giocatore sa di essere un lusso per la sua squadra. La novità è che scelga di farlo pesare.
Daniele De Rossi, di fatto, si è elevato al rango di nuovo re.
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