15 lug 2016

Scuola Sporting


Se non vivete in una grotta, anche se non seguite il calcio ormai saprete che il Portogallo ha vinto Euro 2016. Un'affermazione storica per una nazionale che sembrava destinata a non trionfare mai per limiti strutturali scritti nel dna, e invece ha trovato il modo di imporsi a suo modo, vincendo in totale solo una partita entro i novanta minuti in tutto il torneo. Del resto si è sempre detto che i portoghesi sarebbero i più forti del mondo nel calcio senza porte, e questa è una sorta di dimostrazione che il fato ha voluto darci.

L'ossatura della rosa campione d'Europa ha un'origine sorprendentemente chiara: ben dieci dei quattordici giocatori utilizzati da Fernando Santos nella finale contro la Francia sono prodotti dello Sporting club de Portugal (da quelle parti mal sopportano la dicitura Sporting Lisbona, io vi avviso). E anche il ct a dirla tutta ha avuto un'esperienza sulla panchina del club biancoverde.
Un dato sorprendente visto che lo Sporting nell'immaginario collettivo è al terzo posto nella gerarchia delle tre grandi portoghesi, ben staccato nella considerazione sia dal Porto che dai rivali cittadini del Benfica.
Rui Patricio, Cedric (a proposito, se uno sulla maglia si fa scrivere Cédric specificando dove va l'accento perché chiamarlo per tutto l'Europeo Cedríc?), Fonte, William Carvalho, Adrien Silva, João Mario, Nani, Cristiano Ronaldo, João Moutinho, Quaresma. Sono questi i dieci prodotti biancoverdi vale a dire gran parte dei giocatori più forti che possa schierare il Portogallo. Infatti otto di loro erano titolari in finale. Curioso che ben cinque siano ancora a Lisbona.
Il merito di aver formato questa generazione va a un uomo in particolare: Aurelio Pereira, che dal 1988 è a capo del settore giovanile dello Sporting. Molto più che un semplice osservatore, Pereira ha evidentemente un occhio unico per il talento unito alla capacità di reclutare i giovani e farli crescere, portandoli nel miglior modo possibile alle soglie del calcio professionistico. Oltre a questa generazione anche alcuni grandi del passato sono "nati" grazie ai suoi consigli, come Luis Figo e Simão Sabrosa. 

C'è un paradosso però dietro a tutto questo: lo Sporting è un ottima fucina di talenti, ma non vince un campionato da quattordici anni.
Anzi, andando oltre si scopre che dei diciotto titoli nazionali ottenuti solo due sono arrivati negli ultimi trentaquattro anni, nelle stagioni 1999-2000 e 2001-2002 grazie ai gol a grappoli segnati da Mario Jardel. Oltre a questi il punto più alto della storia recente è la finale di Coppa UEFA persa contro il CSKA Mosca. Una partita che ha solidificato una sorta di maledizione per il club visto che si giocava a Libona, all'Estadio José Alvalade, e rappresentava per lo Sporting la migliore occasione di scrollarsi di dosso il complesso di inferiorità verso Porto e Benfica.
Lo Sporting quindi rappresenta una scuola unica per il calcio portoghese, ma molto raramente raccoglie i frutti del suo lavoro. Due esempi ideali sono Quaresma e Moutinho: entrambi, come detto, prodotti delle giovanili hanno trovato consacrazione e titoli con la maglia del Porto.
Un destino beffardo per i Leoni di Lisbona.

11 lug 2016

Hic et nunc


Il fascino del calcio sudamericano deriva principalmente da un aspetto, oltre che dalla sua forma sistematicamente caotica: tutto ciò che accade, che passa sotto gli occhi degli appassionati e dei tifosi, è destinato a svanire. Le eccezioni che confermano la regola ci sono, ma le splendide traiettorie che il fútbol prende sono da ammirare come delle comete, o delle congiunzioni astrali particolari. Hic et nunc, qui e ora, e nel giro di breve tempo, tutto il contrario. Il confine tra "nunc" e "nunca mas" è sottile quanto la capacità che serve per poter apprezzare questo aspetto estremamente nostalgico.

Lo straordinario River di Marcelo Gallardo, campione d'America 2015, si è visto strappare due pilastri come Kranevitter e Carlos Sánchez e la gloria si è trasformata in fallimento nel giro di pochissimi mesi. Le dinamiche del mercato mondiale mettono tutto in discussione e sicuramente anche la sponda Canalla di Rosario sa benissimo che rifarsi gli occhi con due crack come Lo Celso e Cervi nello stesso undici è una dimensione quanto mai passeggera, destinata a non durare. Splendide generazioni che si frantumano in un attimo, band che si sciolgono dopo il primo album: solo il topos della "vuelta", altro esercizio profondamente sudamericano, può pensare di ricucire, anche se solo parzialmente e ad anni di distanza, il ricordo di qualcosa di grande.

Hic e nunc, qui e ora. Qui, tra Sangolquì e Medellìn, ora, nel cuore del 2016. Il turno d'andata delle semifinali di Copa Libertadores ha sorriso a due squadre bellissime a vedersi, implicate in una snervante lotta contro il tempo: cercare di scrivere il proprio nome più in alto possibile prima che i rispettivi gruppi si sfaldino. Chi questo problema se lo pone relativamente è l'Independiente del Valle, che ha appena battuto 2-1 il Boca Juniors, favoritissimi per la vittoria finale. Il match contro i bosteros è stato l'ennesima prova di quanto la squadra di Pablo Repetto sia un gioiellino che rimarrà cristallizzato nella mente di chi lo ha visto in azione: tra le mura semi-amiche dell'Olimpico Atahualpa (per trent'anni casa dell'LDU di Quito), l'IDV ha imposto il proprio calcio, profondamente legato alla tradizione calcistica del suo Paese. Fisicità, virtuosismi individuali nel saltare l'uomo e una capacità di fraseggio invidiabile, tutti fattori abbinati alla predisposizione mentale di non voler farsi schiacciare. Il Boca di Barros Schelotto, con i polmoni di piombo per i 2700 m d'altura di Quito, ha giocato un match difensivamente splatter (probabilmente la peggior prestazione nella storia azul y oro di Frank Fabra), non ha saputo tenere il vantaggio imposto con il gol di Perez e nella seconda metà di gara ha dovuto soccombere al cocktail micidiale di tecnica e fisico che è il calcio ecuadoregno nella sua migliore espressione. Le danze dei Rayados sono state aperte da Bryan Cabezas, esterno offensivo classe '97 con un futuro estremamente fulgido davanti a sé e delle caratteristiche micidiali. Il ragazzino ha infilato Orión con un destro secco e angolato, dopo aver toreato per più di metà partita la retroguardia del Boca: il ricambio generazionale della Trì, dopo questo soddisfacente ciclo, passerà sicuramente per gli elettrici piedi di questo talento. Dopo diversi minuti è arrivato il 2-1, firmato José Angulo. Anche in questo caso, il personaggio è l'archetipo del grande puntero dell'Ecuador: potenza, esplosività nel passo e gran tiro, tutti mezzi con cui ha irretito i marcatori azul y oro con un tocco a seguire e una palla a incrociare sul secondo palo. Il Monaco ha ormai mandato in porto l'operazione che farà giocare questo classe '95 nel Principato al termine dell'avventura. Detto "El Tin" in onore del leggendario Tin Delgado, ha davanti a sè una parabola sicuramente ascendente a livello europeo. Anche il pilastro difensivo, il ventiseienne Arturo Mina, ha già chiuso con l'Atletico Mineiro e si trasferirà in Brasile al termine della Copa: per quanto il progetto tecnico che negli ultimi anni ha portato l'IDV a bazzicare palcoscenici inimmaginabili sia straordinario, un'occasione simile sembra sussurrare "ora o mai più".

Chi invece la Copa Libertadores non l'ha solo già giocata, ma anche già vinta, peraltro nel momento che ha cambiato completamente le sorti del calcio colombiano, è l'Atletico Nacional de Medellin. I tempi del Pacho Maturana sono passati, ma l'Atanasio Girardot è sempre la culla di suggestioni calcistiche intriganti, nel futbol cafetero. Sulla base di quanto insegnato (e vinto) dal Profe Juan Carlos Osorio, Reinaldo Rueda ha dato continuità e ha aggiornato una squadra già di per sé vincente. L'Atletico Nacional di Rueda è senza dubbio la squadra che ha giocato il miglior calcio in questa edizione della Copa Libertadores, un calcio fatto di possesso palla, movimenti costanti degli esterni da difesa a tre e continua sollecitazione degli attaccanti grazie alle intuizioni dell'uomo in più dei Verdolagas: il venezuelano Alejandro Guerra. Il creativo del centrocampo, classe '85, porta il 15 sulle spalle e il 10 nella testa, e ha dato sfoggio di una tecnica favolosa in un'annata che è stata da preludio alla sorprendente Copa América della sua Vinotinto. Le semifinali di Libertadores partono con le premesse migliori: una vittoria per 0-2 in casa del Sao Paulo ad opera del neo-acquisto Borja, che insacca due reti e si candida a perno futuro della squadra di Medellìn. Anche in questo caso, il ticchettio dell'orologio mette pressione a un gruppo che è in procinto di perdersi: Davinson Sánchez , perla classe '96 della difesa Verdolaga è prossimo al trasferimento all'Ajax, Guerra potrebbe avere ottime proposte dopo l'avventura della Copa Centenario, Copete e Ibarbo hanno già abbandonato la barca, mentre Mejìa è promesso sposo del Leon e Seba Pérez sarà un pezzo grosso della sessione estiva del mercato europeo. Il sogno della vittoria della Libertadores è relativamente vicino, ma il fallimento non comprenderebbe una seconda possibilità, almeno per ora.
Queste battute finali di Copa Libertadores sono le ultime occasioni che ci restano per apprezzare due delle realtà calcistiche più interessanti dell'anno.

1 lug 2016

Pekerman LCDTH

Fidarsi delle dinamiche del calcio sudamericano è sempre un errore, persino banale per chi è abituato a seguirne gli avvenimenti. Evidentemente però c'è qualcosa di scritto nel dna di noi europei che ci porta a cercare pattern precisi, ripetizioni a cui aggrapparci e quindi sempre a cadere in questo errore, e parlare di conseguenza.
Nello specifico, mai giudicare le competizioni da quanto succede nei gironi. Mai. La Libertadores fa scuola in senso assoluto, ma anche questa Copa America Centenario porta chiarissimi moniti. Il Cile, per dire, sembrava la copia sbiadita della squadra vincitrice solo un anno fa e ha dominato la parte più difficile del tabellone della fase a gironi. C'è anche l'esempio opposto: la Colombia è partita forte, ma è durata praticamente una gara e mezza, seguendo il vecchio detto della candela che si scioglie prima bruciando troppo forte.

Parlare della squadra di Pekerman è necessario perché aveva illuso tutti, soprattutto chi scrive, di essere tornata. Buttare via praticamente tutto quando servivano conferme non può che meritare insulti, maledizioni e improperi. Anche perché qualcuno potrebbe avere con l'allenatore argentino un conto aperto fin dai Mondiali 2006.
Chiariamoci, uscire contro il Cile, questo Cile, in semifinale è più che lecito ed è difficile da considerare un fallimento. E la Colombia ha anche vinto la finalina di consolazione contro gli USA, chiudendo quindi la Copa al terzo posto. Però dopo le prime esibizioni questa squadra sembrava poter fare di più. Magari non vincere, ma quantomeno rappresentare un ostacolo degno per la Roja di Pizzi invece di scomparire dal campo dopo appena quindici minuti.

Impossibile chiudere gli occhi rispetto alle colpe di Pekerman. Lui, il vecchio maestro argentino, il grande architetto dietro la rinascita calcistica della Colombia di questi anni ogni volta che la sua squadra arriva alla fase ad eliminazione sembra entrare in modalità panico: puntualmente cambia spartito, rivoluziona la formazione anche se non soprattutto negli aspetti cardine del gioco e finisce per pagare con l'eliminazione.
Una tendenza quantomeno curiosa: Pekerman ha sempre messo mano ai suoi titolari quando è arrivato oltre i gironi, portando la Colombia a cambiare interpreti e anche gioco di conseguenza. E praticamente mai questi cambi hanno portato a qualcosa di positivo. Va bene studiare l'avversario e adattarsi, ma perché minare i propri punti di forza? La Colombia, specie questa generazione, non è certo una selezione tanto debole da dover temere così tanto i rivali.

Si parte dai Mondiali 2014. La Colombia è la sorpresa del torneo, e ha in James Rodriguez il giocatore rivelazione. La demolizione dell'Uruguay agli ottavi apriva prospettive di gloria alla selezione di Pekerman. Anche se i quarti vedevano come sfidante il Brasile padrone di casa i Cafeteros sembravano una squadra in missione con possibilità illimitate. Il ct senza apparente motivo inserisce Guarin tra i titolari rinunciando al fedelissimo Aguilar, il giocatore geometrico della mediana, perdendo riferimenti e squilibrando la formazione. Il risultato è una sconfitta per 2-1 (pur con l'alibi di un arbitraggio rivedibile) contro un Brasile che pochi giorni dopo andrà incontro a una delle peggiori disfatte della sua storia.

Nella Copa America 2015 la Colombia non ha certo brillato nei gironi, arrivando comunque a qualificarsi alla fase ad eliminazione. Perkerman per le partite contro Brasile, Venezuela e Perù aveva scelto di dare minuti e titolarità a Falcao per cercare il recupero del 9, mettendolo praticamente davanti a tutto. Arrivato ai quarti contro l'Argentina il ct però inverte la rotta decidendo di non rischiare più, stravolgendo tutta la formazione: da un 4-4-2 più o meno falso con due mediani, James e Cuadrado sulle fasce e la coppia d'attacco Teofilo-Falcao Pekerman è passato a una sorta di 4-1-3-2 con un solo centrocampista di ruolo (Mejia), Ibarbo-James-Cuadrado a inventare e in attacco due punte come Teo e Jackson Martinez. E pure Arias, un destro naturale, come terzino sinistro al posto di Armero (che è discutibilissimo, ma per la Colombia era un leader). Una soluzione così convincente che la prima sostituzione è arrivata al minuto 23 del primo tempo.

Infine c'è questa Copa America Centenario. La Colombia si era presentata con una bella idea di gioco basata su un 4-2-3-1 asimmetrico, con Cardona a sinistra a cercare spazi e combinazioni e soprattutto l'inserimento a centrocampo di Seba Perez, un centrocampista dinamico e moderno che finalmente rompeva il classico schema di Pekerman di due mediani statici sostanzialmente monofase. Dai quarti ovviamente Perez è uscito dal campo. Al suo posto dentro Carlos Sanchez, mediano purissimo. Una mossa che ha portato a una clamorosa perdita di opzioni nella manovra, un appiattimento del gioco che ha facilitato molto il lavoro del Perù e soprattutto del Cile (contro cui Sanchez si è fatto pure espellere). La disastrosa scelta di Fabra come terzino sinistro, uno che nel Boca non gioca sempre proprio per lacune difensive e infatti è stato arato dai cileni, è stata dettata dalla necessità, quindi non va sulla coscienza del ct.