Visualizzazione post con etichetta eto'o. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta eto'o. Mostra tutti i post

9 giu 2015

Il Barcellona e l'importanza del tridente

Il Barcellona dell'ultimo decennio è una squadra destinata ad entrare nei libri di storia. Tra i diversi motivi la straordinaria qualità del suo gioco e dei suoi interpreti, soprattutto i centrocampisti tipo Xavi e Iniesta e un attaccante dominante come Messi.
Però questo Barcellona ha ottenuto il massimo (che va in una scala da vittoria di campionato e  Champions League a triplete) quando in attacco ha potuto contare non su un singolo giocatore straordinario, ma su tre interpreti, possibilmente di livello assoluto, che si sono divisi le responsabilità.
Dei tasseli in più rispetto a quelli normalmente sotto i riflettori, che però fanno la differenza per il salto di qualità finale
Partiamo da un presupposto: non si sta facendo una gara per stabilire chi sia più forte o più decisivo. Una squadra dipende sempre dalla somma dei singoli, ed è esattamente questo a cui si vuole arrivare.

Il Barcellona in quella che possiamo chiamare "era Messi" ha messo insieme qualcosa come quattordici titoli, limitandoci a quelli principali (eliminando quindi le coppe derivate da altre vittorie). Messi in 11 stagioni ha messo a segno 412 reti (ripetete ancora, QUATTROCENTO E DODICI). Dire che sia stato qualcosa meno di straordinario non ha alcun senso, tuttavia da solo non sempre è bastato. La massima esemplificazione di questo concetto si ha analizzando la stagione 2011/2012.
Messi in quell'annata è andato oltre ogni record. 50 gol nella Liga in 37 presenze, 14 in 11 in Champions League, in totale 73 gol stagionali in 60 partite. Una quantità semplicemente disumana di reti, che però sono servite a vincere solo la Copa del Rey contro l'Athletic Bilbao (una costante). In campionato il Barcellona è arrivato secondo dietro al Real e in Champions è stato eliminato in semifinale dal Chelsea. La miglior stagione della vita di Messi ha portato solo un trofeo, per giunta il meno prestigioso.
La stagione successiva è la seconda migliore della carriera di Messi. Con 60 gol in 50 presenze, di cui 46 nella Liga, Messi riesce a vincere il campionato, ma viene eliminato in semifinale di Copa del Real Madrid e in quella di Champions dal Bayern (più che eliminazione una demolizione).
Quando Messi ha dato il massimo, giocando però da solo, il Barcellona si è sempre scontrato con un limite oggettivo.

Posto che Xavi, Iniesta e centrocampisti vari ci sono sempre stati a creare il tessuto connettivo, spostiamoci altrove.
In certe annate il Barcellona ha fatto qualcosa in più, per un insieme di motivi tra cui ce n'è uno comune e principale: in tutte le vittorie in Champions il Barcellona ha schierato in campo tre punte vere, che hanno trovato tutte un buon numero di reti.
È successo anche nel 2005/2006, ma Messi non era nemmeno convocato e Xavi ed Iniesta sedevano in panchina. Andando quindi alle edizioni successive troviamo Messi-Eto'o-Henry nel 2008/2009 (triplete), Pedro-Messi-Villa nel 2010/2011 (campionato e Champions, persa la finale di Copa del Rey contro il Real ai supplementari) e Messi-Suarez-Neymar nel 2014/2015 (triplete). I primi tre portarono in dote 100 gol in stagione, i secondi 98, quelli attuali sono arrivati a 122. Comunque la si metta bocche da fuoco notevoli che hanno creato mille problemi alle difese avversarie, che infatti hanno potuto poco o nulla contro di loro.

Anche una squadra straordinaria per costruzione come il Barcellona, con un centrocampo straordinario per costanza, qualità e capacità di gioco e quello che forse è il singolo più forte al mondo per ottenere il trionfo assoluto ha avuto bisogno di avere in attacco tre elementi in grado ciascuno di fare la differenza. Una forza troppo grande nella somma e troppo diffusa negli undici in campo per avere una soluzione per le difese avversarie.
Creare tre problemi agli avversari è sempre meglio che crearne solo uno, per quanto possa essere il più grande di tutti.

7 apr 2014

I campioni non sempre si impongono giovanissimi

Se uno è un campione si vede da subito, anche a 18 anni.
Uno dei più abusati luoghi comuni del calcio moderno è figlio diretto della sovraesposizione mediatica a cui è soggetto questo sport, visto che chiunque può scoprire e seguire talenti di ogni età. In più la squadra dominatrice di questo decennio, il Barcellona, si è costruita sui giovani fatti in casa, come precedentemente in ultima analisi il Manchester di Sir Alex, regalando comodi e saldi appigli allo slogan.
Il calcio però non funziona esattamente così. Ciò che induce in inganno è la logica ex post, che porta a giudicare l'intera carriera sulla base del punto di arrivo. Facile dire nel 2014 che Zidane è stato un fenomeno, meno nel 1994. Spesso ai giocatori serve tempo, esperienza, una maturazione tecnica e fisica oltre che un ambiente adatto per imporsi.

Considerando giocatori nati dagli anni 70 in poi, quindi protagonisti in tempi recenti, si trovano moltissimi esempi che smentiscono la teoria per cui uno deve imporsi già in giovane età, magari ad alti livelli per dimostrare qualcosa.
Intendiamoci, il talento da qualche parte deve esserci, ma è un concetto assai più teorico e rarefatto. Quindi l'obiezione classica del tipo "ma si è sempre visto che aveva talento" la scartiamo a priori. Perchè talento ne hanno avuto anche tanti altri, che però non hanno i meriti per stare in questa lista.
Pronti per l'elenco?

Zinedine Zidane (1972): esordisce da giovanissimo nel Cannes e ci rimane fino alla retrocessione nel 1992. In totale 71 presenze e 6 gol. Passa al Bordeaux per 460.000 euro, arriva alla Juventus a 24 anni, faticando mesi per inserirsi.
Franck Ribery (1983): il Pallone d'Oro morale 2014 gioca in terza divisione semiprofessionistica con Boulogne, Olympique Ales e Brest fino al 2004. Poi Metz in Ligue 1, Galatasaray e Olympique Marsiglia prima di approdare al Bayern Monaco a 24 anni.
David Villa (1981): gioca in Segunda Division con lo Sporting Gijon B fino al 2001, in Liga con lo Sporting Gijon fino al 2003. Ancora due anni di Saragozza prima di trasferirsi al Valencia a 24 anni. Poi il Barcellona a 29.
Zlatan Ibrahimovic (1981): fino al 2001 al Malmö, con anche una stagione in Superettan. 8 gol nella prima stagione all'Ajax, a 21 anni, si trasferisce alla Juventus a 23.
Ruud van Nistelrooy (1976): fino al 1997 in Eerste Divisie col Den Bosch. Arriva in Eredivisie con l'Herenveen a 21 anni, nel PSV a 22, al Manchester anche per problemi fisici a 26.
Didier Drogba (1978): esordio nel Levallois, al Le Mans in Division 2 fino al 2002. Arriva in Ligue 1 col Guingamp a 24 anni, si trasferisce al Chelsea a 26.
Samuel Eto'o (1981): sostanzialmente scartato dal Real Madrid che lo aveva preso giovanissimo, gioca col Maiorca fino al 2004, quando si trasferisce al Barcellona.
Thiago Silva (1984): inizia nella terza divisione del campionato gaucho, dalla Juventude lo prende il Porto nel 2004. Per problemi di salute torna in Brasile e ci resta fino alla chiamata del Milan a 25 anni.
Diego Milito (1979): dopo il Racing arriva al Genoa in Serie B nel 2004. Il primo campionato maggiore nel 2005 grazie al Saragozza. All'Inter a 30 anni.
Douglas Maicon (1981): al Cruzeiro fino al 2004, al Monaco fino al 2006. La chiamata dell'Inter, nello stupore generale, a 25 anni. 
Hulk (1986): in Giappone, in J.League Division 2, fino al 2008.
Roy Makaay (1975): al Vitesse fino al 1997, per poi trasferirsi nella Liga. Al Tenerife fino al 1999 prima della grande storia col Deportivo La Coruña fino al 2003. La Germania, col Bayern, a 28 anni.
Luis Figo (1972): allo Sporting Lisbona fino al 1995, con 20 gol in 169 partite.
Rivaldo (1972): in Brasile inizia in club minori (Santa Cruz, Mogi Mirim) fino alla chiamata del Corinthians a 21 anni. Al Deportivo nel 1996, al Barcellona la stagione successiva, a 25 anni.
Ronaldinho (1980): Gremio fino al 2001, PSG fino al 2003. Al Barcellona a 23 anni.
Arturo Vidal (1987): in Cile, al Colo Colo fino al 2007, in Germania al Leverkusen prima della chiamata della Juventus a 24 anni.
David Silva (1986): nato nel Valencia, gioca fino al 2005 tra Segunda Division B e Segunda Division con Valencia B e Elbar, poi esordisce in Liga col Celta Vigo. Si trasferisce al Manchester City a 24 anni. 
Yaya Tourè (1983): in Belgio, al Beveren, fino al 2004, poi Metalurg Donetsk-Olympiakos-Monaco fino al 2007. A 24 anni al Barcellona, a 27 al City.
Mesut Özil (1988): allo Schalke fino al 2008, con 1 gol in 39 partite. Poi il Werder Brema fino al 2010.
Miroslav Klose (1978): nel 1998 in Fußball-Regionalliga con l'Homburg. Kaiserslautern fino al 2004, poi il Werder Brema. A 29 anni al Bayern. 
Robert Lewandowski (1988) fino al 2008 in terza e seconda divisione polacca con lo Znicz Pruszkow. Lech Poznan fino al 2010, il Borussia Dortmund a 23 anni.
Mario Mandzukic (1987): Marsonia in seconda divisione e NK Zagabria fino al 2007, Dinamo Zagabria fino al 2010. Poi la Germania, Wolfsburg e Bayern a 26 anni.
Luka Modric (1985) Zrinjzki Mostar e Inter Zapresic fino al 2005 in prestito dalla Dinamo Zagabria, ritorna alla base e ci resta fino al 2008. Poi Tottenham fino alla chiamata galactica a 27 anni.
Pavel Nedved (1972): in patria tra Dukla e Sparta Praga fino al 1996, quando arriva alla Lazio.
Filippo Inzaghi (1973):  tra B e C1 Piacenza-Leffe-Verona fino al 1995. Gli servono altre due stagioni tra Parma e Atalanta per approdare alla Juventus, a 24 anni.
Christian Vieri (1973):dal 1992 al 1995 in B con Pisa-Ravenna-Venezia, poi in A con l'Atalanta prima di passare alla Juventus a 23 anni per una sola stagione.
Luca Toni (1977): fino a 23 anni C1 e B con Modena-Empoli-Fiorenzuola-Lodigiani-Treviso, poi Vicenza e Brescia in A, il ritorno in B col Palermo. A Firenze a 28 anni, al Bayern a 30
Frank Lampard (1978): al West Ham fino al 2001, qaundo viene acquistato da un Chelsea ancora da costruire.
Michael Ballack (1976): in 2Bundes e Regionalliga Nordost col Chemnitiz fino al 1997. Conosce la Bundes col Kaiserslautern fino al 1999 quando passa al Leverkusen. Al Bayern a 26 anni.
Thierry Henry (1977): fino al 1999 al Monaco, con cui ha vinto anche un campionato, prima di conoscere la Juventus a 22 anni. Non basso livello, ma il problema è il rendimento: in Francia 28 gol in 141 partite, a Torino solo 3. A 23 anni va all'Arsenal e qualcosa cambia.
Javier Zanetti (1973): in Argentina con Talleres in Primera B e Banfield in Primera Division fino all'arrivo all'Inter da sconosciuto e quasi per caso nel 1995.
Andrea Pirlo (1979): prima di saltare sulla sedia, ricordatevi che non si discute il talento. A 18 anni in B col Brescia, malgrado l'arrivo all'Inter nel 1999 non trova una sua dimensione tecnica fino al campionato 2002-2003, quando Ancelotti lo posiziona definitivamente davanti alla difesa. A 23 anni.

Chiaro che si possono fare altrettanti esempi di campioni emersi giovanissimi in grandi squadre e diventati poi colonne del calcio europeo.
L'importante è non generalizzare, nè caricare troppe pressioni su certi giovani a cui serve tempo per trovare la propria strada.


8 ago 2011

Prospettive e Impressioni di Inizio Stagione - Parte Tecnica

La Supercoppa Italiana di Pechino ha sancito l'albore ufficiale della Stagione 2010-2011. Proprio da questo match, che sa tanto di round iniziale, desumiamo e ricaviamo alcune osservazioni che mettiamo in luce in quattro capisaldi. Gian Piero Gasperini ha ampiamente dimostrato che ai sbrigativi numeri, in campo, si sovrappone la Filosofia -partendo dal presupposto che i moduli sono più una trovata mediatica per parlare di calcio superficialmente, in modo raffazzonato, l'organizzazione di gioco è un'altra cosa- soprattutto per uno come lui che ne utilizza e ne preferisce una molta fluente e mutevole, dall'inizio e nello svolgersi della partita.

In fase difensiva c'è ancora da lavorare sulle palle alte tagliate e sui filtranti in verticale -provenienti dalla trequarti, come già era emerso dalle amichevoli pre-season, mettono fuori causa la linea di centrali difensivi e permettono lo stravolgere dell'ordine nella nostra retroguardia; d'altra parte con l'assetto del P.T. la scelta di un pressing non imminente e a tutto campo pareva azzeccata, con il solo Eto'o sopra la linea della palla -in fase di possesso avversaria.

Tutti i giocatori hanno un compito essenziale nella fase di costruzione, visto che il gioco palla a terra è la base, si sottintende dunque quanto sia importante l'inserimento in formazione di ragazzi con buona tecnica, con capacità di passaggio corto senza affanno, anche se i veri e propri funzionari della manovra sono i due centrocampisti centrali -uno più basso come posizione, l'altro più avanzato- e uno dei due rifinitori davanti -che possono avere incarichi e funzioni differenti tra di loro, oltre che posizioni di gioco, e sopratutto non devon per forza essere ali o attaccanti esterni, si evince quindi che non sussiste "un problema Sneijder", che potrà agire perfettamente-.

Il raggio d'azione del singolo è molto ampio e paradossalmente deve essere ordinato oltre che adempiente alla causa, a tutti i giocatori si richiede un flusso di movimento considerevole -fatta eccezione dell'attaccante centrale, e del copritore centrale di difesa, che raramente si allontaneranno dalla loro posizione iniziale- questo implica che tutti contribuiranno alle due fasi sostenendo la trama sia difensiva che offensiva; inutile dire che si richiede molta corsa e un dispendio notevole.

A prescindere da giudizi e modi di vedere positivi o negativi che siano, sarebbe riduttivo e sconsiderato bollare già il valore assoluto della tattica e quindi dell'allenatore in questione; una cosa appare chiara, prima verrà portata a termine l'alchimia di squadra, la metodologia, le convinzioni, la dottrina, meglio gradualmente si svilupperà la conoscenza e meglio sarà per tutti [...]

22 nov 2010

I 5 casi di imputazione a carico di Rafa Benitez

1-Preparazione atletica inadeguata, mezza squadra è ai box per problemi muscolari, gli altri hanno una condizione altetica ridotta ai minimi termini. Anche chi non è stato infortunato, come Sneijder, non ha mai trovato la condizione migliore.

2-Squadra molle e senza carattere, anche negli anni bui la capacità dell'Inter era quella di recuperare e ribaltare partite che sembravano ormai perse. Oggi questo non accade più.

3-Filosofia di gioco troppo rigida, è venuto per portare i suoi diktak (possesso palla, pressing alto e squadra molto aggressiva) ma una volta che ci si è accorti del fallimento del suo progetto, probabilmente anche per giocatori poco utili per una filosofia del genere, si doveva cambiare e non lo si è fatto. Remember Mourinho e il 4-3-3?

4-Poca capacità di leggere le partite, non è quasi mai riuscito a dare la svolta alla gara con un cambio, a livello tattico o di giocatori (quante volte è successo l'anno scorso?)

5-Un carattere forse troppo accondiscendente che lo ha portato giorno dopo giorno a incrinare i rapporti con il gruppo. Ha sbagliato in principio, quando di fronte alle richieste di Eto'o e Sneijder ha cercato per prima cosa di accontentarli, non facendo il bene del gruppo.

2 ott 2010

Guardiola e la sindrome da Eto'o

Nel calcio, come nella vita, giunge inevitabile un momento in cui si sente la necessità di cambiare, di voltare pagina e di rimettere tutto in gioco. Questo ha pensato Pep Guardiola quando, accompagnato dalle sue convinzioni tattiche, si è presentato nell'ufficio di Laporta chiedendo per la seconda estate consecutiva la cessione di Samuel Eto'o, bomber del triplete blaugrana. Una scossa per ripartire con nuove motivazioni, con quello Zlatan Ibrahimovic monarca indiscusso in Italia e bulletto di periferia in Europa, con i suoi centimetri, la sua imprevedibilità e la sua smisurata ambizione a rappresentare una sfida troppo intrigante per l'allenatore catalano e per lo stesso presidente, incapace di rimanere impassibile di fronte al capriccio dell'uomo che lo ha proiettato nella storia del calcio mondiale.

Il genio di Messi, le geometrie di Xavi, la classe di Iniesta e la bizzosa potenza dello spilungone di Malmö: è l'alba di un'altra memorabile e gloriosa cavalcata verso la conquista del mondo del pallone in nome del bel calcio inteso come una sinfonia di scambi stretti e precisi, movimenti continui e triangolazioni da far impallidire Pitagora eseguite a velocità supersoniche. Una corazzata invincibile quanto spettacolare guidata da Guardiola, il ragazzino catalano entrato in punta di piedi nella Masia a tredici anni che, dopo aver vinto tutto calcando l'erba del Camp Nou, è tornato a casa da allenatore, da filosofo della panchina e da maestro di calcio. Il Pep, quello che ha avuto il coraggio di indicare la porta a senatori come Ronaldinho e Deco per non tarpare le ali a Messi e agli altri ragazzini cresciuti nella cantera del distretto di Les Corts, quello che ora ha preparato le valige a Samuel Eto'o rimpiendole con cinquanta milioni di euro ed un biglietto di sola andata in direzione Milano.

Una mossa geniale? Un tremendo azzardo? Sono bastati pochi mesi per registrare le prime avvisaglie di quello che non si è rivelato il semplice scossone emotivo desiderato da Guardiola, ma un terremoto vero e proprio in grado di minare le certezza di una squadra apparsa fino ad allora imbattibile ed irraggiungibile. L'addio forzato di Eto'o ha lasciato spazio ad un ego troppo grande per uno spogliatoio già illuminato da diverse stelle ed incontrollabile per lo stesso Guardiola: un'arma a doppio taglio dentro e fuori dal campo. Addio ai movimenti del camerunense, alla sua freddezza sotto porta, alla straordinaria semplicità del suo calcio e benvenuto all'ostentazione fatta persona, al centravanti atipico con l'assoluta necessità di essere sempre al centro del gioco e inefficace se inserito in un contesto che non preveda un'intera squadra umilmente al suo servizio. Schiacciato dal peso della personalità e del talento di "una" pulce (l'onestà intellettuale consiglia di specificare che non si tratta di una pulce qualsiasi), il piccolo-grande Ibra ha comunque chiuso la stagione con l'onorevolissimo score di ventuno reti, non male per gli almanacchi, ma non abbastanza per l'esigente pubblico spagnolo, rattristato ripensando al precedente numero nove e avvilito vedendo lo stesso Eto'o esultare sotto ai loro occhi festeggiando la qualificazione alla finale di Madrid.

Colui che veniva chiamato "filosofo" in segno di apprezzamento e stima per gli ideali calcistici e per il livello intellettuale messo in mostra lontano dal terreno di gioco si è sentito battezzare in questo modo con una certa vena di disprezzo, quasi invitato ad una nuova carriera lontano dalla panchina a giostrare fra i salotti letterari di Barcellona, mentre l'acquisto più oneroso della storia blaugrana, fra una dichiarazione e l'altra, ha trovato sistemazione in un club in grado di soddisfare i capricci suoi e del suo rappresentante.

Scottato (ustionato?) dall'operazione Ibra, Guardiola non ha esitato ad investire pesantamente per un nuovo centravanti, ripiegando questa volta sul campione del Mondo David Villa: giocatore ben più simile ad Eto'o rispetto al predecessore svedese. Una sconfessione delle proprie convinzioni tecnico-tattiche, una tacita ammissione di colpe e soprattutto la consapevolezza di aver commesso un crimine oramai irreparabile verso il suo Barcellona. E' presto per esporsi in pericolosi giudizi sull'operato del Guaje al centro dell'attacco dei catalani, ma questo prime partite stagionali sono sembrate un inesorabile déjà vu, perchè, nonostante la bontà e l'assoluta qualità del numero sette della nazionale spagnola che con ogni probabilità si tradurranno in un'ottima quantità di gol, nè Villa, nè Ibrahimovic, nè nessun altro attaccante al Mondo è in grado di rappresentare ed emulare ciò che Samuel Eto'o è stato per la squadra di Pep Guardiola: una macchina da gol implacabile in grado di muoversi per il fronte offensivo con tempi, sapienza ed intelligenza da manuale del calcio, un'atleta infaticabile con la predisposizione al sacrificio di un mediano perfetto per il concetto di pressing totale del suo allenatore, una star mondiale in grado di valorizzare senza soffrire lo sconfinato talento di Messi, un giocatore da subito nel cuore dei tifosi, apprezzato da tutto lo spogliatoio blaugrana e soprattutto un catalano d'adozione legato al Camp Nou, a Barcellona e alla sua gente.
Troppo per cercarne un clone, troppo anche per un'alternativa.

26 giu 2010

WC2010: Top&Flop Giocatori - Terza Giornata

FLOP

Daniele De Rossi: l'ombra del grande centrocampista della Roma, da lui nasce il primo gol Slovacco. Fisicamente in condizioni imbarazzanti, può solo prendere la targa di Kopunek quando scatta per il terzo gol.

Riccardo Montolivo: solita storia. Una partita e mezza buona (possibilmente contro poco o nulla) e tutti a proclamarlo fenomeno. Crolla verticalmente quando il livello si alza. Personalità cercasi, peccato.

Antonio Di Natale: il suo livello è l'Udinese, conferma Mondiale dopo flop Europeo.

Vincenzo Iaquinta: al suo altare Lippi sacrifica Pazzini e in parte Quagliarella. Corre quanto può vista la condizione approssimativa, tecnicamente fa piangere, prima punta non è il suo ruolo. Bell'assist per Quagliarella, ma cotruirci attorno la nazionale è un suicidio.

Nikola Zigic: il più grande punto debole della Serbia contro l'Australia, la sua cronica assenza in zona gol ha pesato parecchio La porta è quella delimitata dai pali e dalla traversa, diteglielo.


TOP

Lucio: capitano coraggioso. Nelle grandi sfide si esalta, Cristiano Ronaldo se lo ricorderà per un pò. Difende alla grande chiudendo tutti i buchi e vista la pochezza dei mediani si sgancia anche frequentemente, regalando doppi passi e colpi di tacco.

Julio Cesar: nel caso ci fossero dubbi, conferma di essere di un livello altissimo. Una parata impossibile.

Javier Pastore: piccoli fenomeni crescono. Entra in campo e l'Argentina cambia ritmo. Giocate in verticale, scatti, velocità, tecnica. Sicuri che non possa giocare titolare?

Clemente Rodriguez: un terzino vero nell'Argentina! Regala dinamismo a tutta la manovra, peccato che tornerà in panchina.

Landon Donovan: l'uomo simbolo (e di maggior qualità) degli USA risponde presente proprio quando tutto sembrava finito. Due gol determinanti (Slovenia e Algeria) quando più servivano.

Kevin-Prince Boateng: prova solidissima contro la "sua" Germania. Corsa, grandissima lettura tattica, fisico e prova anche a dare qualità. Non è un caso che il Ghana sia agli ottavi.

Keisuke Honda: il nuovo talento del calcio giapponese. Si è fatto conoscere in Europa grazie al Cska di Mosca, ma l'impressione è che la sua crescita sia all'inizio. Punta a sorpresa, lui che è un rifinitore, regala corsa, gol, assist e giocate. Chapeau.

Diego Benaglio: se la Svizzera ha sfiorato un sogno, lo deve soprattutto a un grande portiere.

Fabio Coentrao: il giovane terzino del Benfica si sta dimostrando giocatore di livello. Tecnica sopraffina, corsa, capacità difensive e buoni cross. Ne sentiremo parlare

David Villa: capocannoniere agli ultimi Europei, poi vinti, il vizio del gol non lo perderà mai. Giocate da fenomeno nel ruolo.

Samuel Eto'o: vedere alla voce "predicare nel deserto". Di un'altro livello rispetto a praticamente tutti in Africa, criticarlo in nazionale è follia.

Bastian Schweinsteiger: tanta, tanta sostanza in mezzo al campo, unite a tecnica e capacità di giocare la palla. Tatticamente perfetto.

19 set 2009

Inter: bene così

Prova del nove, sfida decisiva, esame finale. Si sono sprecati decine di titoli e migliaia di parole per presentare Inter-Barcellona, prima partita del girone di qualificazione di Champions League. Aspettative alle stelle per una sfida giocata a otto mesi dalla finale di Madrid, a poco più di due settimane dalla chiusura della sessione di mercato estiva.

Quale può essere dunque il peso specifico di quella che era stata presentata come la sfida fra Eto'o ed Ibrahimovic? Può essere veramente considerata la prova decisiva per giudicare l'Inter, per capire fino a dove può arrivare e soprattutto se è cambiato qualcosa rispetto alla scorsa stagione?

La risposta sembra essere pressochè unanime ed è affermativa, questa è stata la sfida che ha permesso di trarre molte conclusioni, per quanto affrettate o meno possano essere. Ben diverso però è il contenuto di queste conclusioni, perchè se l'opinione pubblica (tifosi interisti compresi) sembra piuttosto compatta nel giudicare incolore e non sufficiente la prestazione dei nerazzurri, c'è chi preferisce vedere ed analizzare da una prospettiva ben diversa i novanta minuti giocati contro il Barça.

Il Barcellona appunto, campione di Spagna e campione d'Europa, una squadra in grado di esprimere il miglior calcio al mondo per distacco, fatto di movimento, possesso palla, verticalizzazioni, velocità, precisione. Un mix letale di tecnica, qualità e tattica che ha permesso agli uomini di Pep Guardiola di dominare in lungo e in largo la scorsa stagione, che si trattasse di Liga o di Champions poco importa, perchè grazie ad interpreti meravigliosi di questa filosofia di gioco come Xavi, Iniesta, Messi, Henry, Daniel Alves e molti altri nessuna squadra e nessun tecnico è stato in grado di fermarli. L'unico che può recriminare qualcosa è forse Guus Hiddink, che con il suo Chelsea è stato fermato a pochi minuti dal sogno da una magia di Andrés Iniesta. Lasciando da parte le recriminazioni varie legate all'arbitraggio di Ovrebo, sarebbe più opportuno ricordare come il tecnico olandese sia riuscito ad arginare e limitare la superiorità degli spagnoli: undici uomini costantemente dietro alla linea della palla, concentrazione estrema in fase difensiva, marcature impeccabili ed attacco basato su ripartenze rapide e precise. Al ritorno a Stamford Bridge sicuramente il Chelsea è riuscito a rendersi più pericoloso, seppure non cambiando di molto l'impostazione e l'approcio alla gara, ma traendo particolare vantaggio dalle numerose assenze nelle fila del Barça, costretto ad esempio a giocare con Yaya Touré centrale difensivo.

Mercoledì Mourinho ha invece deciso di utilizzare le stesse armi dell'undici blaugrana per contrastarli: pressing asfissiante, ritmo, fiammate in velocità, movimenti continui da parte delle punte e nei limiti del possibile possesso palla. Una scelta coraggiosa, che ha dato buoni/ottimi risultati nella prima frazione di gara e pagata carissima nella ripresa. Per quasi mezz'ora l'Inter ha cercato ed è riuscita a fare la partita, per un'ora complessiva è riuscita a giocare alla pari e a tenere testa al Barcellona, grazie ad un grande spirito di sacrificio, alla compattezza sia della squadra in generale che dei singoli reparti, ad un pressing estremo quanto efficace e a tentativi di verticalizzazioni improvvise che hanno permesso di presentarsi qualche volte nei pressi di Victor Valdes e al contempo di limitare per quanto possibile la pericolosità in fase offensiva degli avversari.

Nella ripresa la squadra è rimasta chiaramente a corto di fiato, cedendo pian piano campo agli avversari, che guidati dal direttore d'orchestra Xavi, migliore in campo per distacco anche questa volta, hanno invaso la metà campo nerazzurra e cercato di insidiare Julio Cesar in ogni modo. Tuttavia, nonostante il secondo tempo di marca nettamente blaugrana, l'Inter ha mostrato grande capacità di soffrire ed una compattezza difensiva impressionante. Samuel, Lucio e Chivu hanno interpretato la partita in modo perfetto, chiudendo, accorciando e sbrogliando le situazioni pericolose in maniera impeccabile. Non a caso Julio Cesar nella ripresa è risultato praticamente inoperoso, una certa novità se si considerano i precedenti big-match di Champions League.

Per concludere si può leggere sicuramente la partita in modo più che positivo, soprattutto se si considera che l'Inter era priva di due perni quali sono Stankovic e Cambiasso e che la squadra lavora da tre settimane al completo. Una leggera differenza rispetto al Barcellona, che ha cambiato un solo titolare e gioca allo stesso modo da anni e anni.
Mourinho e i suoi non sono sicuramente al livello del Barça ed è da visionari pensare che potessero esserlo, ma quei trenta minuti del primo tempo lasciano ben sperare e danno tutta la fiducia necessaria per continuare a lavorare in questo modo, consapevoli del fatto che c'è solo da migliorare, magari prendendo anche spunto dalla fantastica squadra affrontata mercoledì.