26 nov 2018

Caos Libertadores


Doveva essere il giorno del giudizio, il punto di non ritorno, la data che avrebbe sancito la sorte di intere generazioni di tifosi argentini, la guerra dei mondi e via dicendo, tuttavia è stata l'ennesima puntata di una storia fatta di mancata organizzazione e interessi che vanno ben oltre il campo di gioco. Insomma, una "normale" giornata calcistica oltreoceano, con disordini, pietre volanti, sceneggiate, notizie di tutti i generi che si rincorrono tra smentite e conferme, con la cassa di risonanza che solo un Superclasico in finale di Copa Libertadores può creare.

Forse per la prima volta la competizione più importante del Sudamerica può competere con la Champions League e il Mondiale, perché non c'è appassionato che si voglia perdere la partita del secolo e non c'è testata giornalistica che possa pensare di rinunciare alla copertura dell'evento più goloso dell'anno. È facile seguire Boca-River: un po' di retorica, qualche aneddoto, due interviste agli ex che sono passati dal tuo paese, parole roboanti e il pezzo è pronto. È ancora più facile preparare qualche riga di profonda indignazione e disdegno, perché in fondo vanno bene la guerra o lo scontro tra fazioni, ma inteso in termini sportivi. A memoria, di termini sportivi in queste settimane se ne sono letti ben pochi e un po' sorprende lo stupore per quanto accaduto nella capitale argentina, che negli ultimi tempi a livello sociale ed economico non sta attraversando un'epoca dorata. Accendere la tv o atterrare a Buenos Aires pensando di vivere un meraviglioso evento di sport era un'utopia che neppure il più ottimista tra gli addetti poteva immaginare.

Ciò che è accaduto sabato sera va senza alcun dubbio oltre i limiti dell'accettabile. Tuttavia, nonostante questo, si tratta di avvenimenti che dovrebbero essere inseriti in un contesto che permetta quantomeno di capire cosa è accaduto, in quale modo e in quale ambiente.


I fatti

La cronaca delle ore antecedenti il Superclasico di ritorno al Monumental è piuttosto chiara: il pullman del Boca Juniors, lasciato il ritiro prepartita, è oggetto di una sassaiola a qualche centinaio di metri dallo stadio. Si rompono alcuni vetri e a riportare le conseguenze peggiori è il capitano degli Xeneizes, Pablo Perez, colpito all'occhio da alcune schegge. La polizia, nel tentativo di ripristinare l'ordine, lancia lacrimogeni che finiscono per intossicare parte della rosa del Boca. Nelle ore successive la Conmebol spinge per far disputare l'incontro, il Boca si oppone e, al termine di un infinito tira e molla, ottiene il rinvio della partita a domenica, forte del supporto del River Plate. Nel frattempo all'esterno dello stadio della Banda il disordine prosegue, tra scontri e furti d'auto. Mentre i tifosi presenti allo stadio iniziano ad abbandonare l'impianto, c'è anche chi riesce nel tentativo di irrompere dall'esterno, in cerca dei giocatori rivali, secondo alcuni, in cerca di biglietti, secondo altri.
Il giorno seguente i tifosi di casa iniziano a riempire nuovamente il Monumental, ma, dopo la visita dall'oftalmologo, Pablo Perez non riceve l'ok medico e il Boca ottiene un ulteriore rinvio a data da destinarsi. L'obiettivo: una vittoria a tavolino.


L'antecedente

Quando si parla di Boca, River e lacrimogeni il richiamo al 14 maggio 2015 è inevitabile. Si tratta del ritorno degli ottavi di Copa Libertadores, disputato sette giorni dopo l'andata al Monumental conclusasi 1-0 per i Millonarios. I giocatori del River, al rientro in campo dopo l'intervallo, subiscono un attacco con una bomboletta di spray urticante lanciata all'interno del tunnel che porta al terreno di gioco. Dopo più di un'ora di discussioni, con il Presidente del River D'Onofrio sceso in campo a battagliare verbalmente con dirigenti boquensi e direttori della Conmebol, l'arbitro Dario Herrera sancisce la fine dell'incontro: vittoria del River a tavolino e squalifica dalla competizione in corso per il Boca. Il "gas pimienta" lanciato da un barra brava del Boca, Adrian El Panadero Napolitano, passerà tristemente alla storia, diventando oggetto di infinite discussioni e prese in giro tra rivali.


E adesso?

Inevitabile dunque chiedersi se questa volta la vittoria a tavolino toccherà agli Xeneizes: non da escludere, ma molto improbabile, perché, a differenza del 2015, i fatti si sono svolti a centinaia di metri dallo stadio Monumental e il responsabile della sicurezza, in quella zona, non è il River Plate. C'è qualche precedente, anche in occasione di altri finali, e finora la vittoria non è stata assegnata a tavolino. Le differenze con quanto accaduto alla Bombonera sono evidenti e il tempo che trascorrerà da qui a martedì, data in cui verrà presa un'ulteriore decisione sulla data della finale, servirà al Millo per raccogliere ulteriori prove a proprio vantaggio. La Conmebol, che voleva disputare la finale a tutti i costi sabato sera, non è mai sembrata orientata verso la sospensione dell'incontro e difficilmente si esporrà in tale direzione.


▪ Di chi è opera l'attacco?

Nella narrazione del futbol argentino, delle sue leggende e della sua mistica, ci si dimentica spesso di chi, in questo calcio, ha un peso pari, se non superiore, a giocatori e dirigenti: i barrabravas. La loro fama ha superato i confini nazionali e continentali, spesso per il folklore e il tifo caloroso, meno frequentemente per ciò che in realtà rappresentano: organizzazioni criminali. La Barra ormai ha un potere e un'influenza che vanno ben oltre la curva o lo stadio, grazie ad agganci diretti con la malavita e rapporti più o meno chiari con la politica. Tifo organizzato e spaccio di droga sono un binomio inseparabile, tanto che la rivendita di biglietti passa ormai per normalità.
Non è un caso che gli scontri tra diverse fazioni all'interno della stessa Barra finiscano spesso sulle pagine di cronaca nera: comandare il tifo organizzato è un'attività remunerativa e la lotta per il potere è spietata. C'è chi sostiene che lo stesso Panadero di cui sopra, membro di un gruppo passato in secondo piano nella gerarchia della Doce e diffidato dall'ingresso alla Bombonera, abbia lanciato il gas urticante proprio per mandare un segnale ai vertici della Barra xeneize e del club.


Sabato l'assalto al pullman del Boca non è stato opera di passanti innervositi dal saluto poco carino di Gago o da ragazzini un po' sopra alle righe: è stato un agguato studiato a tavolino dai Borrachos del Tablon, la Barra del River Plate.


▪ Il movente?

Qualche giorno fa un'irruzione delle forze dell'ordine ha permesso il recupero di 10 milioni di pesos, 15mila dollari e oltre 300 biglietti per il Superclasico. Il proprietario? "Caverna" Godoy, il capo della Barrabrava del River Plate. D'Onofrio, il presidente dei Millonarios, è stato abbastanza chiaro quando ha parlato di "10/15 persone", facendo intendere il riferimento.
Il pensiero della Barra? Senza di noi questa partita non si gioca. Ed ecco che allora anche l'irruzione nel Monumental assume contorni diversi e c'è chi riporta notizie di tifosi aggrediti e tentativi di furti dei preziosissimi tagliandi. A tal proposito è da considerare quantomeno rivedibile la scelta del River di mantenere validi i vecchi biglietti per il recupero (eventuale?).


Le forze dell'ordine

Scortare il pullman del Boca con qualche moto e farlo immettere in un imbuto di tifosi rivali è a dir poco sconsiderato. Qualche settimana fa il Ministro Patricia Bullrich ostentatava sicurezza, riducendo ai minimi termini la preoccupazione per il doppio Superclasico, facilmente gestibile rispetto all'imminente G20. Macrì auspicava addirittura il tanto atteso ritorno dei tifosi ospiti, vietati ormai da anni in Argentina.
Difficile tracciare il confine tra negligenza e collusione, soprattutto senza trascinare in campo riferimenti politici. Qualche giornalista argentino ha parlato di "zona liberada", facendo intendere che la Barra e la Polizia abbiano trovato un accordo dopo la retata ai Borrachos. C'è chi richiama uno stretto legame tra Barra riverplatense e governo Kirchner e chi, negli eventi di sabato, vede un messaggio rivolto all'ex-presidente del Boca Mauricio Macrì, l'attuale capo di stato argentino.



Non c'erano le condizioni per disputare un incontro alla pari e il Boca ha fatto bene a opporsi alle pressioni della Conmebol e di Infantino. Così come hanno fatto bene il River e Gallardo ad appoggiare i rivali. Poco importa se qualche giocatore del Boca, così come accaduto tre anni fa tra quelli del River, abbia approfittato della situazione per un po' di teatro, come l'uruguaiano Nandez, entrato al Monumental in versione mirmidone e pochi minuti dopo disteso in fin di vita negli spogliatoi. A differenza del 2015, quando i giocatori del Boca, escluso Osvaldo, si rifiutarono di lasciare il terreno di gioco nonostante la decisione dell'arbitro, la squadra di casa ha sposato la causa del rivale, forse anche nel tentativo di minimizzare i rischi di un ricorso per l'assegnazione a tavolino. Tentativo andato a vuoto, perché a Casa Amarilla sembrano intenzionati a restituire il regalo confezionato tre anni fa.

Nel frattempo sono emerse immagini di Gago che saluta i tifosi di casa con un dito medio e pare che Tevez abbia mimato la celebre gallina da un finestrino, ma, se effettivamente si tratta di un attacco della Barra, dei colpi di genio dei referenti azul y oro importa poco.

Più curioso è invece il caso di Pablo Perez. Ricoverato per rimuovere le schegge di vetro, seppur non in condizione, sembrava disposto a giocare, fino alla definitiva sospensione dell'incontro. Domenica il capitano Xeneize si è recato alla clinica Otamendi per un nuovo esame, ottenendo un ulteriore stop da parte dei medici. Il direttore del reparto? Il Dott. Heriberto Marotta, responsabile dell'area medica del Boca Juniors.

In tutto questo la Conmebol non ha perso occasione per dimostrare la propria inadeguatezza a livello politico e organizzativo. Tra rinvii, posticipi e comunicazioni random, il massimo organo del calcio sudamericano ha lanciato un perfetto spot del proprio operato in mondovisione. Dapprima facendo la voce grossa e minacciando il Boca in caso di rifiuto a scendere in campo, poi mettendo a rischio la sicurezza dei tifosi rinviando di mezz'ora in mezz'ora la partita. Non ce n'era bisogno, ma è stata l'ennesima dimostrazione che il calcio occupa l'ultimo posto nei loro interessi.

26 giu 2018

Perché la Roma ha ceduto Nainggolan?



Radja Nainggolan non è più un giocatore della Roma. Il trasferimento all'Inter è ormai (o finalmente, dipende dai gusti) ufficiale e quindi la domanda serpeggia libera tra i tifosi: perché la Roma ha ceduto il belga? Ovviamente la risposta è articolata, ed è impossibile non entrare nel campo delle ipotesi almeno per qualche aspetto.

Innanzitutto partiamo da un punto incontrovertibile: la Roma ha cambiato idea su Nainggolan. Anche abbastanza in fretta per quelli che sono i tempi del calcio per la verità.
Poco meno di un anno fa infatti il centrocampista rinnovava il suo contratto col club, con una mossa in gran parte dedicata proprio a Spalletti, ex tecnico giallorosso appena passato all'Inter e noto amante calcistico del Ninja, non a caso corteggiato a parole dalla dirigenza nerazzurra. La Roma lo blindava più o meno a vita dopo la sua miglior stagione in carriera, facendone di fatto un simbolo e un punto di riferimento. Da qui però le cose sono iniziate ad andare a sud.

Di Francesco non è Spalletti, e nel suo 4-3-3 è venuto meno il ruolo che il toscano aveva ritagliato su misura per il belga. Nainggolan è comunque rimasto un titolare come dimostrano le 42 presenze stagionali per 3580 minuti (quasi mai sostituito), ma la quadratura non ha funzionato così bene. Il rendimento è stato buono, specie nelle partite di cartello, l'impegno sempre presente, ma il calo numerico dei gol fa sempre notizia: da 14 a 6. Un giocatore importante, ma non l'elemento ideale per il nuovo corso. Ed avendo un profilo così alto questo tema sarebbe sempre rimasto sotterraneo e latente, pronto a eplodere.

Il vero spartiacque è l'episodio di capodanno. Con quel famosissimo video Nainggolan diventa ufficialmente un problema nell'ambiente Roma, o qualcosa del genere, per quanto la sua vita privata sopra le righe non sia mai stata un mistero. Una conferma arriva praticamente subito: in pochi giorni il numero 4 sembra a un passo dal trasferimento in Cina. Un fulmine a ciel sereno, un segnale chiaro a chiunque dell'intenzione della Roma di cambiare in qualche modo corso prendendo magari come scusa un video che in altri periodi sarebbe passato in secondo piano. Poi salta tutto e tra l'altro il belga continua a lavorare con ottima professionalità per la sua squadra, ma il dado è tratto.

La cessione finale all'Inter, insomma, parte chiaramente da un'idea societaria, che mischia motivazioni tecniche e comportamentali. E anche economiche, per le solite necessità di bilancio in epoca fpf.
Così si spiega anche la relativa rapidità di una trattativa condotta con una rivale diretta per i posti Champions e il prezzo finale, che per quanto tra cash e contropartite si avvicini ai 40 milioni è notevolmente inferiore ai 75 che si diceva servissero un anno fa. Monchi probabilmente ha visto nell'offerta dell'Inter l'ultima possibilità di monetizzare un giocatore indiscutibilmente forte, ma in calo, che per il suo stile di vita potrebbe anche calare ancora e che essendo del 1988 ha ormai trent'anni. Risolvendo al contempo un "problema" di spogliatoio e/o ambientale.
Nainggolan, dal lato suo, è sicuramente contento di ritrovare Spalletti, il tecnico che più lo ha valorizzato, e quindi le cose filano via veloci.

Ma tecnicamente, alla fine, la Roma ci perde?
Pensando ai soli Santon e Zaniolo, limitandosi quindi alla trattativa con l'Inter, la risposta è chiaramente sì. Il terzino sarà un jolly difensivo e il giovane è un talento, ma parliamo di elementi di complemento. Zaniolo, che sembra avere ottimi colpi e ha già esordito in B con l'Entella, è appunto un giovane tutto da sgrezzare e proiettare tra i grandi. Non è con loro che i giallorossi intendono colmare il vuoto di un loro titolare.
La risposta tecnica, insomma, è negli altri colpi a centrocampo: sta a Cristante e Pastore, oltre che a Pellegrini a meno di una sua cessione, fare un passo avanti e raccogliere il testimone lasciato da Nainggolan. Tutti elementi più giovani del belga, sicuramente più gestibili e più adatti alle idee di Di Francesco, che tra l'altro è abituato a lavorare e valorizzare il materiale grezzo dall'esperienza Sassuolo. L'eccezione è Pastore, ma qui la scommessa è tutta sul talento, e anche questo unito agli acquisti in attacco è un segnale di cambiamento: una Roma più tecnica, malleabile per il suo allenatore, e meno di lotta.
In cui, comunque, servirà trovare un nuovo leader. Perché Nainggolan avrà mille difetti, ma in campo ha sempre fatto la differenza senza alcuna paura di trovarsi al centro dei riflettori.






25 giu 2018

Il Mondiale, le barricate e il problema di attaccarle



Il Mondiale 2018 ha un tratto caratteristico tecnico-tattico ben chiaro: le squadre, che siano grandi o medio-piccole, hanno imparato a giocare in difesa. Le notizie parlano di pochi gol, di big in crisi, di grandi giocatori assenti, ma tutto deriva da questo semplice fatto. Le squadre scarse, o quantomeno più deboli nel contesto, non sono più scarse a 360°, ma hanno imparato a fare una cosa. Difendersi. Magari solo quella, ma intanto.

La conseguenza è che la "big" di turno (tra virgolette perché, ripeto, può anche solo essere la più forte nel contesto) si trova davanti sempre la stessa situazione. Sulla carta il modulo della formazione che sceglie di difendersi (sempre per capirci, lo ha fatto anche la Croazia contro l'Argentina) è sempre con la difesa a tre, poi nei fatti si vede una linea a cinque se non a sei, bassa il più possibile, con tre centrocampisti davanti e uno o due uomini più avanzati, dove per più avanzati si intende al massimo sulla propria trequarti, che sarebbero nominalmente gli attaccanti. Spazi centrali intasatissimi, area piena di corpi che praticamente fanno il ruolo dei dissuasori mobili. Detto in breve, le barricate. Una caratteristica singolarmente beffarda per un'edizione senza l'Italia.

Ordine, compattezza, disciplina, copertura degli spazi: questa cosa la stanno mettendo in campo praticamente tutti (con eccezioni notevoli tipo l'Arabia Saudita e la Tunisia). E questo fatto sta mandando in crisi un po' tutte le favorite.

Una simile organizzazione difensiva infatti porta il chiarissimo dilemma su come trovare spiragli in questa muraglia. Spesso chi ha il possesso finisce per far girare palla in modo sterile e lento, magari tra difensori e mediani circumnavigando il blocco avversario, per poi allargarla verso gli esterni per cercare l'uno contro uno. Che però tende a produrre solo cross pronti ad essere preda dei cento difensori annidiati in ogni metro quadrato dell'area. Uno spartito abbastanza ripetitivo e noioso, che può essere interrotto solo da giocate individuali o collettive di alta qualità o da eventi più occasionali quali ripartenze o giocate fortunate (vedi Diego Costa contro l'Iran). Da qui possiamo dedurre un paio di cose.

Innanzitutto questo non è un segno di impoverimento, anzi. Il calcio è cresciuto nel livello medio ragionando su scala mondiale, e questo ha portato a sviluppare almeno una fase in modo organizzato. Chiaramente la difesa ha il vantaggio di poter essere messa insieme anche se entro i tuoi confini non nascono Iniesta e Cristiano Ronaldo. Le grandi però non si sono fatte trovare esattamente pronte a questa cosa, tradendo una certa pigrizia nell'idea offensiva grazie alla superiorità che da sempre garantiscono i singoli talenti.

Lavorare con le selezioni nazionali è sempre difficile per modi e tempi, ma ugualmente la mancanza di soluzioni, schemi, idee è abbastanza disarmante. Non basta abbassare un mediano per cercare più circolazione o schierare qualche giocatore più offensivo sugli esterni sperando peschi il jolly di giornata. O meglio, può bastare, ma sono soluzioni estemporanee che non portano a vantaggi reali nel medio periodo, perché non è detto si possano replicare. Vedremo una crescita futura in questo senso? Ci sentiamo in Qatar per gli aggiornamenti.

25 apr 2018

L'esperimento nelle giovanili della Roma



"Una teoria del complotto (o della cospirazione) è una teoria che attribuisce la causa prima di un evento, o di una catena di eventi a un complotto. Si tratta in genere di teorie alternative più complesse ed elaborate rispetto alle versioni fornite dalle fonti ufficiali. Queste teorie non sono provate per definizione".
Questo post vuole trattare un complotto interno al calcio italiano, in particolare alle giovanili della Roma, e come potete leggere non deve provarlo per definizione, quindi rimangiatevi subito le obiezioni ovvie e salite sulla giostra. Parliamo di un caso piuttosto evidente, insabbiato dai media comuni, non trattato e nemmeno accennato, ma che se fossimo in altri paesi meriterebbe una puntata di Enigmi Alieni con Giorgio Tsoukalos fuori dai cancelli dei campi di allenamento a fare ricerche.

Le giovanili della Roma sono da anni uno dei migliori serbatoi per il calcio italiano, sfornano talenti in modo costante, molti anche approdati nella prima squadra giallorossa. Ma negli ultimi anni Alberto De Rossi, storico allenatore della Primavera, ha una categoria particolare di giocatore costantemente presente: l'esterno d'attacco mancino, portatissimo per dribblare e giocare sulla destra rientrando sul piede forte. Chiaramente la cosa può essere vista come una semplice coincidenza, ma del resto quale complotto non presenta questo tranello?

La cosa curiosa è appunto la continuità della presenza di questo archetipo. Non uno, non due casi. Parliamo di una produzione continua, roba da sembrare di stare in fabbrica. La Roma nasconde gli stampi per avere sempre lo stesso giocatore di anno in anno, cambiandogli solo un po' il look?
So che suona assurdo. E so che a ogni teoria, per quanto complottista, servono gli esempi. Ebbene qui ne abbiamo in abbondanza, pur senza avere la pretesa di ricordarli davvero tutti.

Il primo, concedendo una certa possibile approssimazione, è Alessio Cerci. Colui che fu soprannominato l'Henry di Valmontone prima e a cui fu paragonato Robben poi, pupillo assoluto di Ventura, evidentemente in casa Roma è piaciuto, e dopo qualche anno considerato che parliamo di un classe 1987 è partita la produzione.
Non ci è dato sapere se Cerci se lo siano trovato o se sia il primo prototipo, quello da cui si è preso spunto o il frutto di una ricerca precisa. Fatto sta che negli anni successivi dai laboratori presumibilmente nascosti sotto Trigoria sono spuntati con sorprendente continuità Ciciretti e Politano nel 1993, addirittura due gemelli, frutto evidentemente di una produzione sovrabbondante, Federico e Matteo Ricci nel 1994, Verde nel 1996. Ma non solo.
Per non farsi mancare niente anche Brignola, talento del Benevento, ha passato un anno a Roma nel 2015-2016. Forse si trattava di una produzione delocalizzata? Sia come sia, nella città della Strega ora si godono l'erede di Ciciretti, la loro risposta a Robben. O a Cerci. O a Politano, tanto per far capire.

Ma non ci sono solo loro. In ogni esperimento si possono registrare anomalie, perché la scienza vive di errori. E in casa Roma possiamo trovarne in particolare due: Federico Caprari, anche lui perfettamente rientrante nell'archetipo, ma nato di piede destro e quindi spurio, e Mirco Antonucci, classe 1999 e anche lui destro. Magari sono i primi di una nuova linea di produzione. Staremo a vedere. 

In pratica De Rossi padre in ogni Primavera ha un giocatore identico o quasi al precedente. Lo so che non ci credete. E allora lascio l'ultimo tassello. Sapete chi è il responsabile del settore giovanile della Roma? Ve lo dico io: Bruno Conti. Vi ricordate le sue caratteristiche? Il fuoriclasse di Nettuno giocava ala, è mancino, e amava rientrare sul suo piede forte. Sicuramente sarà una coincidenza. Un'altra. O così ci diranno.

25 mar 2018

Perché Sampaoli non convoca Dybala?


Le parole di Jorge Sampaoli su Paulo Dybala hanno fatto molto discutere soprattutto in Italia, dove per ovvie ragioni le gesta del numero 10 della Juventus hanno risonanza maggiore. Malgrado un parziale dietrofront del ct di pochi giorni dopo, rimane una grande domanda sospesa: perché l'Argentina vuole fare a meno di Dybala? La risposta è più semplice di quello che si crede, ma per accettarla bisogna capire l'ottica del discorso, senza ragionamenti semplicistici.

Per cominciare Dybala è uno dei talenti "giovani" della rosa dell'Argentina, uno di quelli a cui sicuramente sarà affidato il prossimo ciclo albiceleste (quello in cui non ci saranno più auspicabilmente i giocatori classe 86-87-88 che fanno la spina dorsale della squadra di oggi). A conferma di questo fatto il mancino bianconero ha 12 presenze con la seleccion dal 2015, di cui 8 in impegni seri nelle qualificazioni ai Mondiali. Dybala quindi è considerato e inserito nel progetto, a differenza per dire di Mauro Icardi, e Sampaoli l'ha già testato sul campo. Il suo problema è primariamente tecnico.

Dybala per caratteristiche è molto simile a Messi. Senza aprire il discorso del paragone specifico tra i due, come fisico, piede preferito e anche tendenze di gioco i due numeri 10 posso essere inseriti nello stesso archetipo di giocatore, e lo si scriveva anche da queste parti un tot di tempo fa.
Ma da qui nasce un problema: in quanto simili, hanno anche tendenze di gioco simili. Che tra l'altro stanno diventando sempre più simili: Dybala fino a un anno fa si disimpegnava con più costanza anche sull'esterno, mentre ora gioca principalmente accentrato, da seconda punta, trequartista o prima punta che sia. Esattamente quello che fa Messi.
A parole è facile dire che i grandi giocatori possono sempre dividersi il campo, ma nella realtà una convivenza comporta disponibilità al sacrificio, per cui è necessaria in primo luogo l'accettazione mentale. Cosa che, per essere chiari, Messi nella sua carriera matura non è solito concedere a nessuno, se non per brevi periodi di tempo e nel Barcellona. Non a caso nelle ultime partite che Dybala ha giocato insieme al catalano d'adozione è arrivato un commento netto e inequivocabile. Da parte proprio dello juventino, non di Messi, che non è un gran chiacchierone solitamente e lascia parlare i fatti.

Il nativo di Laguna Larga in campo con il 10 dell'Argentina non si trova, perché occupano le stesse zone e giocano sostanzialmente allo stesso modo. Dirlo apertamente segna un confine e una presa di posizione, è un atto di lesa maestà da cui è difficile tornare indietro. Dybala, in un certo senso, ha affermato la sua identità tecnica, che non è (o era, vedremo) disposto a sacrificare. Sampaoli ha provato la strana coppia, che ha funzionato pochino, ma preso atto delle idee espresse ai media dallo juventino a quel punto di fatto si è trovato a scegliere. Perché, tra le altre cose, il tempo in vista dei Mondiali stringe.
Messi è chiaramente intoccabile, e se Dybala non era (e forse è) disposto a cercasi altre zone di campo in cui spostarsi per giocare insieme a lui (da qui il riferimento al mancato adattamento a certe idee e all'anarchia) può al massimo diventare la sua alternativa in panchina. Ma vale la pena convocare Dybala per la panchina? Considerato che poi Messi dal campo non uscirà mai e, ancora una volta, il suo alter ego ha dichiarato di non trovarsi a giocare con lui e non sembra disposto a giocare in altri modi?
La scelta del ct è forzata da certi eventi, ma è più logica di quello che si vuol far credere.

27 dic 2017

Petagna si sta accontentando



Andrea Petagna si è imposto all'improvviso nella scorsa stagione come uno dei centravanti protagonisti della nostra Serie A. Ormai la sua presenza è data per scontata, ma solo un anno fa non era affatto così: solo nell'Atalanta aveva davanti nelle gerarchie Mauricio Pinilla ed Alberto Paloschi. Unicamente la follia visionaria di Gasperini, uno che di sicuro non ha paura di azzardare, lo ha proiettato tra i titolari dei nerazzurri e a quel punto è iniziata totalmente un'altra storia.

Riavvolgiamo il nastro. Petagna cresce calcisticamente nel Milan, dove fa il suo esordio nel 2012 in Champions League venendo poi aggregato alla prima squadra. Il suo tratto distintivo è sempre stato il fisico: il nativo di Trieste infatti fin da piccolo ha potuto vantare una superiorità schiacciante sui suoi avversari che ne ha dettato lo stile di gioco da lottatore, impavido in ogni tipo di agone fisico. A questo l'attaccante unisce un mancino raffinato, che a livello di giovanili lo rendeva una specie di versione Hulk di Messi. O una specie di Hulk e basta, il calciatore. Tra i professionisti però la musica cambia in fretta.
I primi passi della carriera di Petagna sono duri, durissimi. Cambia tre maglie (Sampdoria, Latina, Vicenza, con un ritorno al Milan nel mezzo) senza trovare mai la sua dimensione. Una situazione tanto frustrante da fargli meditare persino l'addio al calcio. Lo salva l'Ascoli, che lo preleva in prestito e lo fa giocare titolare. Risultato un campionato da 7 gol, ad oggi il suo migliore dal punto di vista realizzativo. Siamo nella stagione 2015-2016 e nel mercato di gennaio l'Atalanta decide di puntare su di lui acquistandone il cartellino. Arriverà a Bergamo l'anno successivo, nel 2016-2017, e come dicevamo la sua carriera cambierà decisamente.

Come accaduto a Cristante, Gagliardini, Kessié e chissà quanti altri l'incontro con Gasperini è fondamentale per la svolta di Petagna. Nessuno al mondo infatti darebbe fiducia dal nulla ad una punta giovane (è un classe 1995), digiuna di Serie A e soprattutto così allergica al gol. Il tecnico di Grugliasco invece sì, panchinando pure giocatori con curriculum più seri, e il risultato un anno dopo è che Andrea è un titolare certo nel massimo campionato. Tutto grazie al contesto che Gasperini ha creato a Bergamo.
Perché il contesto tattico è chiaramente fondamentale per il rendimento di Petagna: il numero 29 infatti è l'unico attaccante al mondo che va in campo a prescindere dalla sua "incapacità" di segnare. Il suo compito principale nell'Atalanta è fare da riferimento offensivo. Petagna deve stare alto, giocare tanto spalle alla porta, difendere ogni cosa che i suoi compagni gli mandano, che sia palla alta o palla bassa, pressare ogni avversario nella sua zona di competenza (che è parecchio ampia visto che gioca da unica punta). E in questo è semplicemente straordinario. Ai gol ci pensano i suoi compagni, spesso sfruttando anche il suo preziosissimo lavoro di sponda, che poi è la sua seconda caratteristica migliore. Petagna infatti ha veramente un buon mancino grazie al quale riesce a duettare coi compagni, serve assist e si produce anche in cambi di gioco. Il resto lo fa il solito fisico. Gasperini, in sostanza, lo usa per spostare anche fisicamente le difese avversarie e aprire spazi ai compagni, che poi sa anche servire.

Il problema è appunto il suo rapporto col gol. Nella scorsa stagione con l'Atalanta ne ha segnati 5, un numero chiaramente insufficiente per un centravanti titolare, dimostrando una sorprendente mancanza di cattiveria dentro l'area, specie per un giocatore tanto convinto in ogni altra zona del campo. Sembra quasi che quando Petagna rivolge la fronte alla porta perda i suoi poteri: impressionante in negativo, ad esempio, è la debolezza del suo tiro. Completasse questa assurda mancanza potrebbe diventare una punta completa molto interessante, di conseguenza sembrava naturale che iniziasse a lavorare sui suoi limiti. Invece questa stagione, al momento, va nella direzione opposta.
Petagna invece che combattere contro i suoi limiti per superarli sembra averli abbracciati, decidendo di ritagliarsi il suo spazio vitale all'interno di essi. Questa scelta, magari inconscia, rischia di tarpargli le ali, limitandolo a giocatore di ruolo in un contesto unico o quasi. Un azzardo enorme per un ragazzo che bene o male ha tutta la carriera davanti.

3 dic 2017

C'è un nuovo Cristante in città


Gasperini è da sempre un maestro nel far rendere giocatori con corsa, un minimo di senso tattico e/o tecnica. I nomi resi rilevanti dal suo sistema di gioco negli anni sono innumerevoli, ma abbandonato il suo sistema (e, forse, il suo preparatore) capita che il loro rendimento cambi, anche radicalmente. All'Atalanta il tecnico di Grugliasco sta trovando uno dei picchi della sua carriera, e l'ultimo giocatore a godere del suo tocco magico è Bryan Cristante.

Ogni tanto va ricordato che Cristante è un classe 1995, quindi un giocatore ancora giovane, soprattutto alle latitudini italiane. Per intenderci, ha un anno in meno di Gagliardini. Sembra più vissuto perché ha avuto una certa pubblicità fin da adolescente, quando giocava nella cantera del Milan ed era considerato il talento del futuro per la mediana rossonera, tanto da esordire addirittura nel 2011, in Champions League. Gagliardini, per mantenere l'esempio, vede per la prima volta il campo con l'Atalanta dei grandi due anni dopo, nel 2013.
Questa precocità in un certo senso gli si è ritorta contro. L'etichetta di giovane talento ha un peso, soprattutto quando inizi a girare un paio di squadre senza trovare mai spazio. Si passa in fretta a sopravvalutato, giovane bruciato, e dopo Benfica, Palermo e Pescara sembrava proprio questo il destino del centrocampista nato a San Vito al Tagliamento. Invece a gennaio 2017 Gasperini lo sceglie per sostituire numericamente proprio Gagliardini, prelevato dall'Inter, e comincia un'altra storia.

Nelle giovanili del Milan Cristante era visto come un potenziale erede di Pirlo, vale a dire un regista basso, specializzato nel giocare davanti alla difesa in un centrocampo a tre, dettando i tempi dell'azione. E questo sembrava il suo unico ruolo (con l'eccezione di un paio di partite sotto la guida di Allegri, che lo ha schierato da interno), fino all'incontro (sì, lo ripeto ancora, ma è proprio una sliding door focale) con Gasperini. Il tecnico piemontese evidentemente ha delle capacità al limite della veggenza nel valutare i giocatori, e nell'ex rossonero ha visto un talento passato sostanzialmente inosservato: la capacità di corsa verticale e di inserimento.

Nei primi sei mesi a Bergamo in realtà Cristante si è più che altro ambientato. Ha trovato i minuti e la fiducia che gli sono sempre mancati e ha occupato il posto in mezzo al campo lasciato da Gagliardini, giocando insieme a Freuler e Kessié. Un po' di regia, un po' di movimento, apprendimento tattico e, a sorpresa, 3 gol per un pieno di autostima fondamentale per sbocciare. Infatti Bryan quest'anno ha fatto un deciso passo in avanti, prendendo per mano l'Atalanta anche in Europa League e ritagliandosi uno spazio da deciso protagonista.

Il Cristante versione 2017-2018 è però un giocatore mai visto prima. Gasperini nella sua nuova Atalanta gli ha ritagliato un ruolo nuovo, diverso sia da quello sempre ricoperto che da quello dei primi mesi. O meglio, magari non così diverso dal periodo iniziale in nerazzurro, ma più specializzato. Il numero 4 è diventato a tutti gli effetti l'uomo degli inserimenti, deputato a dare peso all'attacco e riempire l'area. Un giocatore molto dinamico, sempre in movimento. I gol che sta trovando non sono un caso, ma frutto di un piano preciso (escludendo ovviamente quelli di testa su calcio piazzato, la sua specialità): Cristante è diventato in nerazzurro l'erede di Franck Kessié, vale a dire l'uomo che galleggia tra centrocampo e attacco a seconda delle necessità, pur con caratteristiche proprie e diverse. Di sicuro un giocatore moderno, che può incidere sulla partita in diversi modi, rendersi utile in molti modi e adattarsi a diversi compagni mantenendo un certo standard.

Il massimo esempio della nuova vita di Cristante si è avuto nello storico 1-5 contro l'Everton. In questa gara ha giocato praticamente da seconda punta, attaccando sempre l'area palla al piede e inserendosi. Risultato: due gol e un rigore procurato. Col doppio mediano alle sue spalle (la coppia de Roon-Freuler) diventa libero di interpretare la fase offensiva come trequartista incursore, l'estremizzazione del lavoro di box-to-box. Il gol trovato contro il Benevento nasce proprio da questa impostazione, che conferma la nuova dimensione del giocatore. Ora anche riferimento e leader dell'Atalanta.
A un passo dal diventare una meteora Cristante ha trovato la sua strada, trasformandosi come giocatore. Come la crisalide che diventa farfalla.