23 ott 2017
La Juventus è di nuovo tatticamente a metà
Una costante della Juventus di Allegri sembra essere la mancata definizione tattica, almeno a livello definitivo. Anche quest'anno infatti, quando la scorsa stagione sembrava aver segnato la via definitiva del 4-2-3-1, i bianconeri si trovano ancora a cercare la quadra e discutere di moduli e giocatori. Questo a prescindere dai risultati, che sono comunque sempre arrivati derubricando il discorso tattico a poco più di una curiosità.
Andiamo per sommi capi. Fin dal primo anno in cui il tecnico livornese ha raccolto il testimone di Antonio Conte si parla di moduli. Ai tempi sembrava intenzionato a impostare subito la difesa a 4, ma il modulo a 3 dava più certezze e solidità e allora la squadra è tornata al 3-5-2 lavorando progressivamente su altro.
Mandando avanti il nastro fino al 2016/2017 Allegri fin dal mercato sembrava voler puntare su un rombo, ancora un 3-5-2 o al massimo un 4-3-3, ma non trovando un assetto accettabile per il centrocampo ha deciso di varare il 4-2-3-1 inventando Mandzukic esterno di sinistra, modulo che poi lo ha portato a sfiorare un triplete. Resta però una soluzione estemporanea, nata da una situzione in un certo senso di emergenza, per cui la squadra non era stata costruita. E nel finale di stagione, soprattutto il Champions League, il tecnico è tornato a una difesa a tre più o meno mascherata sfruttando Dani Alves come pendolo e allargando Barzagli all'occorrenza come terzino destro.
Arrivati al mercato estivo del 2017 la strada sembrava a tutti abbastanza chiara: la Juventus avrebbe cercato uomini per il 4-2-3-1, in particolare esterni d'attacco. I ricambi sulle fasce infatti in rosa mancavano visto che la squadra era costruita per tutt'altro modulo, nello specifico per un attacco a due punte, e Dybala progressivamente era stato spostato in posizione centrale. Invece, ancora una volta, Allegri ha scelto di mettere in discussione il suo modulo tattico, cercando in particolare il 4-3-3.
L'acquisto simbolo di quest'idea è Blaise Matuidi. Il francese è un arrivo di spessore, ma il suo ambiente ideale è un centrocampo a tre, per quanto viste qualità ed esperienza poi possa adattarsi a tutto. Resta un innesto sintomatico del tarlo nella testa dell'allenatore, uno che, per dire, ha presentato a Coverciano una tesi proprio sui movimenti degli interni in un centrocampo a tre.
La Juventus insomma ha una rosa ampia in tutti i reparti, ma che sembra fatta apposta per tenere aperte più porte possibili. In ogni modulo si può trovare qualcosa che funziona bene e qualcosa che stona a seconda della direzione in cui si guarda. Una situazione che si protrae da un po' troppo tempo per essere del tutto casuale.
5 ott 2017
Alberto Rendo, il Perù e il giorno peggiore della sua vita
Argentina-Perù è una seconda
opportunità per tutti: per Sampaoli, che dopo anni da carnefice
condurrà la sua prima, grande battaglia dall'altra parte della
barricata; per il Perù, che otto anni fa scivolò sotto la pioggia
nel momento decisivo; per Messi, Di Maria e tutta la generazione che
vive con i fantasmi dello scorso biennio e deve evitare il colpo di
grazia della mancata qualificazione al suo ultimo mondiale; persino
per la Bombonera, che fu il teatro della stessa sceneggiatura il 31
agosto del 1969 e non fu riuscì a piegare il verdetto. Non sarà una
seconda opportunità solo per Brindisi, Rulli, Rendo e il resto della
squadra che quel giorno affrontò il Perù alla Bombonera e, a
distanza di quarantotto anni, parla ancora di quel giorno come il più
grande trauma vissuto in carriera.
“E' stata la peggior esperienza della
mia vita” ha raccontato Alberto Rendo, forse il più acclamato di
quell'incompiuta Seleccion, in un'intervista che costituisce un
capitolo del libro “Así Jugamos” di Borinsky e Vignone, sulle
venticinque partite più iconiche della storia albiceleste. Rendo è
l'ambasciatore di quella partita nel mondo: ha segnato un gol e ne
porta ancora avanti il ricordo, descrivendo quelle ore nei minimi
particolari.
Lo chiamano “Toscano” dal giorno in
cui, da ragazzino, una zia lo accompagnò agli studi cinematografici
della CIFA per un provino da attore in un film sulla pallacanestro.
Il famosissimo attore e regista Armando Bó
stava girando il film e quando lo vide, trovò in lui una somiglianza
con Andrés “Toscanito” Poggio, un bimbo prodigio che qualche
anno prima era diventato una celebrità in tutto il Paese girando
“Pelota de Trapo”, la madre di quelle pellicole di direct cinema
che prendevano spunto un po' dai racconti di Borocotó"su El Grafico, scelto come sceneggiatore,
un po' dal neorealismo, e documentavano le giornate dei ragazzini
poveri, sempre di corsa dietro al pallone. Del film non si fece
nulla, ma fu un comunque un provino a cambiargli la vita: a 17 anni,
quando lavorava ancora in una fabbrica di calzature, si allenò a
Parque Patricios sotto gli occhi del teorico de “La Maquina”
Carlos Peucelle, che telefonò in AFA e fece tenere da parte la
numero sette dell'Albiceleste giovanile. Nel 1958 debuttò in Primera
con la maglia dell'Huracan e segnò un doppietta. Diventò un
giocatore fondamentale del campionato argentino e un referente
assoluto del Globo, di cui peraltro era tifoso, con cui instaurò un
rapporto d'amore reciproco che non venne rotto nemmeno dal suo
passaggio al San Lorenzo nel 1965. Quando a Parque Patricios si seppe
la notizia del trasferimento, i tifosi dell'Huracan si presentarono a
bordo di due furgoni davanti a casa Rendo, a Pompeya, chiedendo al
loro pupillo il motivo della partenza. Alberto, però, non ne sapeva
nulla: all'epoca la volontà del giocatore valeva un decimo del peso
specifico attuale, nell'economia di una trattativa, ed erano i soli
presidenti ad aver voce in capitolo. Quello dell'Huracan, Carmelo
Marotta, in cambio del suo gioiello intascò la cifra record di
venticinque milioni di pesos più cinque giocatori, ma per la
hinchada quemera non fu un'argomentazione sufficientemente valida per
impedir loro di montare sulle camionette, dirigersi verso la casa
funeraria gestita dal presidentissimo e prenderla a sassate. Rendo,
dal canto suo, passò anni importanti anche al Cuervo, ammettendo di
essere tifoso dei rivali, ma giurando che avrebbe difeso i nuovi
colori come se fossero quelli del suo cuore. Nel 1968 vinse un
Campionato Metropolitano nella squadra che passerà alla storia come
i Matadores e fu proprio da giocatore del San Lorenzo che Rendo
arrivò alla partita più importante della sua vita.
Il gironcino di qualificazione non fu
dei più impietosi: Bolivia e Perù. Alla guida della Selección
c'era una divinità vivente come Adolfo Pedernera, chiamato in corsa
da una federazione già all'epoca disastrata mentre era allenatore
dell'Independiente. L'ex leggenda riverplatense ricevette alcune
critiche per le scelte nelle convocazioni, con cui chiamò
principalmente i suoi uomini di fiducia al Rojo. E Rendo? “Se si fa
male un centrocampista, lo porto”. Le prime due partite di
qualificazione agli ordini di Pedernera furono un disastro: due
sconfitte, entrambe in trasferta. Nel frattempo, il capitano Antonio
Ubaldo Rattin, totem assoluto, ma ormai a fine corsa, si infortunò,
lasciando spazio per le ultime due partite ad Alberto Rendo.
“Toscano” era un calciatore di primissimo piano nel calcio
argentino di quegli anni, ma pur essendo una presenza frequente in
Albiceleste non riuscì mai a giocare un mondiale: nel '62 non venne
chiamato pur essendo nel suo miglior periodo, nel '66 era un titolare,
ma un litigio col “Toto” Lorenzo gli costò il viaggio in
Inghilterra. Gli restava Mexico '70, per cui ancora tutto era in
discussione: con due vittorie, l'Argentina sarebbe passata.
Contro la Bolivia non giocò, ma bastò
un gol su rigore del Tucumano Albrecht per far sì che si decidesse
tutto il 31 agosto 1969 alla Bombonera, contro il Perù. Con un solo risultato su tre a disposizione.
Ancora oggi, quella del pupillo di Pelè
Teofilo Cubillas, di Hector Chumpitaz, del “Chito” De La Torre e
del suo allenatore, Didi, viene ricordata come la migliore
generazione della storia del fútbol
andino. Ma Rendo non voleva e non vuole sentire storie: “Non erano
dei crack come pensa la gente”. In campo, però, per i primi
quarantacinque minuti sembrarono esserci solo i peruviani, e Rendo li
osservava affamato dalla panchina. Talmente affamato che corse a muso
duro da Challe, colpevole di lanciato la palla in testa a un
argentino. Pedernera decise di metterlo in campo per il secondo
tempo, appena in tempo per il vero inizio della partita: “El
Cachito” Oswaldo Ramirez, il secondo miglior marcatore della storia
della Liga Peruana, sbloccò subito le marcature. Fu un duro colpo,
ma la presenza di Rendo aveva completamente cambiato la partita:
l'Argentina aveva iniziato ad attaccare con più frequenza e proprio
“Toscano”, un metro e sessantasei di tecnica alla soglia dei
trent'anni, si inventò un rigore da manuale, agganciandosi con la
gamba a un difensore avversario. Albrecht non fallì dal dischetto
l'1-1. Ma il Perù, a dispetto di Rendo, era un avversario difficile
da mettere in riga e Ramirez, uno che “non aveva ancora segnato
prima di quel giorno”, mise il secondo. La partita sembrò sfuggire
del tutto, ma Orlando De La Torre lasciò il Perù in dieci per
un'ingenuità e l'attacco albiceleste si infiammò di nuovo: tacco di
Yazalde per Rendo, che saltò due uomini, cercò la rete, trovò il palo
e infine si avventò sulla ribattuta a porta vuota. 2-2, quando
mancavano una manciata di minuti prima del fischio finale, e gli
argentini si sentivano molto più vicini al lieto fine. Nell'ultimo
minuto, infatti arrivò il gol: Marcos infilò in rete con un colpo
di testa, ma l'arbitro non lo convalidò, apparentemente per
fuorigioco di Perfumo, tanto che Rendo si fiondò dall'arbitro e lo
apostrofò malamente. Il gol, però, era stato annullato per fallo di
Yazalde sul portiere Rubiños,
ultima scena di una partita da film.
Nello spogliatoio albiceleste
l'atmosfera era tragica: in un angolo fumava Pedernera, al termine di
un'avventura che non rese onore al maestro di calcio a tutto tondo
che era stato sia da giocatore che da allenatore. Ebbe le sue
responsabilità in quella disfatta, e non esitò un solo secondo a
caricarsele sulle spalle, con la solita eleganza che fu l'essenza
della squadra più forte del calcio argentino. Molti altri piangevano
nello spogliatoio. Rendo, ancora in preda all'adrenalina della sua
miglior partita in albiceleste, si infilò nel vapore della doccia e
uscì diversi minuti dopo, quando a circondarlo rimasero prima le
quattro mura dello spogliatoio vuoto, poi la stessa Bombonera vuota,
poi la lunga strada che porta fino a Pompeya, percorsa tutta a piedi
e passando dietro al campo dell'Huracan, vuoto pure quello, poi le
quattro mura di una casa altrettanto vuota, e infine le coperte del
suo letto, dove si rifugiò allucinato, mangiando una tavoletta
intera di cioccolato.
Il Perù andò ai Mondiali e cadde ai
quarti di finale contro un Brasile inarrivabile per chiunque.
Paradossalmente, anche Rendo prese un aereo per il Messico, ma con un
anno di ritardo: nel '71, dopo aver giocato altre ventotto partite
con l'Huracan, si trasferì al Santos Laguna. Dopo quel pomeriggio,
non vestì mai più la maglia albiceleste.
Foto: Mundo D - La Voz